Autore
Tra Uomo, umani e umanə. Per una difesa critica dell’antropologia filosofica
- L’antropologia filosofica oggi. Un bilancio controverso
- Una metafisica discriminatoria? Tre critiche
- Conoscere se stessi. Tre possibili risposte
- Conclusioni. Tre compiti per il futuro
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S&F_n. 32_2024
Abstract
Between Man, Humans and Human*: For a Critical Defence of Philosophical Anthropology
The paper presents a critical defence of philosophical anthropology in response to the claim that its paradigm is now conceptually exhausted. The text is divided into two parts. The first part (§1) gives a brief overview of the state of the art of the discipline almost a century after its birth, emphasising both the narrowness of its reception and the emergence of some original developments. In order to contribute to the consolidation of the latter, the second part presents (§2) and discusses (§3) three important accusations against the project of philosophical anthropology: abstractness, anti-naturalism and anthropocentrism. The conclusions argue that philosophical anthropology can rejects such accusations, provided that its conceptual toolbox is supplemented in the light of the historical, cultural and technological changes that late twentieth-century humans have begun to experience.
1. L’antropologia filosofica oggi. Un bilancio controverso
Notoriamente, l’antropologia filosofica emerge nel contesto storico-culturale tedesco del secolo scorso, auto-attribuendosi il compito di indagare la condizione umana nella sua irriducibilità e persino auto-presentandosi come il primo momento nella storia in cui l’essere umano in quanto tale sarebbe diventato tematicamente un problema a se stesso, in reazione a uno smarrimento simbolico direttamente proporzionale all’incremento di conoscenze scientifiche sul fenomeno umano[1]. Ciò ha posto da subito l’esigenza di perimetrarne il posizionamento epistemico nel campo dei saperi, circoscrivendone la posizione rispetto alle altre scienze dell’umano di impronta variamente antropologica, sociologica, psicologica o biologica, e sforzandosi di definire il carattere insieme regionale e generale del suo peculiare oggetto di studio[2].
Tuttavia, dopo quasi un secolo, il bilancio della disciplina appare quantomeno controverso. Cominciando con il contesto anglosassone, troviamo chi chiama in causa l’antropologia filosofica soltanto come disciplina normativa intenta a enucleare linee di condotta universali[3], e la Stanford Encyclopedia of Philosophy non le riserva una voce nemmeno di natura storica. Certo, non mancano lavori specificamente mirati, di impronta storiografica o tematica[4], così come ci sono autori diventati oggetto di studio anche alla luce dell’antropologia filosofica al centro dei loro scritti[5], ma simili contributi non hanno trovato convergenza nel proposito di sviluppare sistematicamente un indirizzo di ricerca unitario e condiviso. Spostandoci nell’Europa continentale, qualcosa di analogo sembra possa essere riscontrato anche sul versante francese, nonostante premesse di carattere diverso. Intanto, troviamo una tradizione di antropologia culturale – da Claude Lévi-Strauss a Philippe Descola – più sensibile all’elaborazione concettuale. Poi, ci sono studi con vocazione antropologico-filosofica già più indipendenti[6], tanto da aver dato forma a proposte teoretiche originali e influenti, capaci di dare corso antropologico-filosofico anche al pensiero di autori diversi da quelli canonici[7]. Infine, c’è stata una ripresa esplicita del tema della necessità di una prospettiva filosofica capace di superare la dispersione generata dal proliferare di scienze dell’essere umano[8]. Ciononostante, nemmeno in questo caso l’antropologia filosofica ha saputo guadagnarsi una tematizzazione in quanto ambito di indagine indipendente del quale definire linee di analisi e metodologie di lavoro complessive e trasversali.
Restando in Italia, lo scenario appare simile: è vero che abbiamo sia svariati studi monografici legati a specifici autori, sia lavori più autonomi di indubbio pregio[9], ma essi non fanno capo a una prospettiva di ricerca complessiva e sufficientemente consolidata, come segnala anche l’assenza di riviste e associazioni scientifiche tematiche. Inoltre, l’influenza del discorso teologico rimane particolarmente accentuata, declinando l’antropologia filosofica in direzione di una riflessione sulla posizione sovrannaturale dell’uomo, o naturale in senso sostanzialista-normativo[10]: questo risulta problematico per una disciplina nata come risposta secolare alla perdita di autorità del discorso religioso e di ogni tentativo di fornire una norma universale capace di dare un senso alla vita degli individui[11]. Nel complesso, l’emblema di come l’antropologia filosofica fatichi ad assumere un volto disciplinare sufficientemente riconoscibile sulla scena del dibattito internazionale è forse il recente lavoro di Björn Larsson, dedicato al tentativo di ripensare l’essere umano alla luce di una scienza unificata che integri scienze naturali, sociali e umane per rendere ragione del posizionamento specifico dell’essere umano all’interno della natura in maniera auto-riflessiva: nelle sue oltre 400 pagine, corredate da una bibliografia particolarmente vasta, non compare nessun riferimento all’antropologia filosofica[12]. Considerando tutto ciò, non sorprende che persino nel contesto germanofono, in cui il dibattito è comunque rimasto più vivo, abbiamo chi sentenzia che l’antropologia filosofica «è attualmente considerata un campo di ricerca chiuso»[13].
In aperta controtendenza, troviamo però l’importante proposta di Joachim Fischer, che offre una ricostruzione delle alterne fortune dell’antropologia filosofica incentrata sulla distinzione tra «antropologia filosofica» e «Antropologia Filosofica», secondo cui la seconda non va considerata né una disciplina o sotto-disciplina filosofica, sulla falsariga delle filosofie “di” o delle branche standard della filosofia, né una mera ripresa di taglio antropologico di correnti di pensiero tradizionali[14]. Viceversa, l’Antropologia Filosofica si presenta quale «programma teorico»: un paradigma di ricerca volto a fornire una caratterizzazione unitaria e complessiva della condizione umana, avvalendosi di un approccio bottom up anziché top down. Mentre il secondo prevede una determinazione di tipo frontale, che definisce immediatamente, quasi deduttivamente, la natura umana sulla base di proprietà, caratteristiche e tratti assunti come generalmente umani in linea di principio, il primo si impegna invece in una determinazione di tipo orbitale, in quanto ruota intorno alla comprensione del fenomeno umano offerta da diverse scienze, su tutte biologiche, accompagnandola con un gesto riflessivo. Tale metodo è dunque indiretto perché passa per il confronto con le svariate discipline che intercettano “l’oggetto” dell’essere umano, ma anche perché imbastisce una trama di relazioni differenziali e graduate con i diversi volti del “non-umano”, siano essi naturali (piante e animali) o extra-naturali (divinità e macchine). L’Antropologia Filosofica mantiene così un duplice posizionamento intermedio: evita gli opposti riduzionismi del naturalismo e culturalismo, che annullano la distinzione tra natura e cultura riassorbendola rispettivamente biologicamente e discorsivamente; coniuga teoria ed empiria tramite l’interpretazione filosofica dei dati forniti dai saperi sull’umano.
Tuttavia, proprio tale caratterizzazione espone il fianco a una serie di elementi critici che incalzano, prima ancora dei contenuti della disciplina, i suoi stessi metodi e modi di pensare, portando a chiedersi se davvero il modello dell’antropologia filosofica sia giunto al termine della propria vita concettuale[15]. Questo contributo intende sostenere che la risposta sia no, presentandosi come difesa critica dell’approccio dell’antropologia filosofica inteso come programma teorico più complessivo (d’ora in poi AF). A tal fine, dopo aver esposto tre principali capi d’accusa nel § 2, il § 3 esaminerà come questi debbano sì essere presi in seria considerazione, ma possano anche essere superati, determinando alcuni compiti fondamentali per il futuro dell’AF, che verranno enucleati nelle conclusioni.
- Una metafisica discriminatoria? Tre critiche
Delle accuse all’AF qui presentate, alcune sono state mosse in termini diretti ad alcuni tra i suoi autori classici o all’interezza del suo orientamento; altre – soprattutto la seconda – sono rivolte al problema più generale della comprensione concettuale dell’essere umano, motivo per cui possono facilmente venire qui estese all’AF. Le prime due critiche denunciano la vocazione metafisica dell’AF da diverse angolature, mentre la terza ne stigmatizza particolarmente l’indole discriminatoria. Le accuse sono dunque di: a) astrattezza; b) anti-naturalismo; c) antropocentrismo.
a) In termini generali, l’accusa di astrattezza evidenzia come l’AF metterebbe in atto un’operazione di generalizzazione indebita e incapace di tenere conto dei particolari, ovvero di salvare i fenomeni umani. Più nel dettaglio, l’accusa può avere tre principali declinazioni, legate agli orientamenti rispettivamente a1) antropologico-culturale; a2) critico-sociale; a3) post-metafisico.
a1) Concentrandosi sull’Uomo, l’AF perderebbe inevitabilmente di vista la molteplicità storico-culturale dell’uomo, ovvero la varietà degli esseri umani: qualsiasi tentativo di sviluppare una concezione unitaria dei fenomeni umani, ossia di circoscrivere qualcosa come la natura umana, pagherebbe il dazio di lasciarsi sfuggire la ricchezza delle forme di vita umane. Il risultato ultimo sarebbe un’omologazione e omogeneizzazione delle differenze umane – di quella pluralità che rappresenta la vera ricchezza della forma di vita umana[16].
a2) In questa ricerca di un’immagine complessiva dell’umano, l’AF rimuoverebbe le qualità determinate dell’esserci storico-sociale degli esseri umani, ossia la specifica situazione politico-economica in cui gli individui e gruppi umani concretamente si trovano a vivere, rivelandosi altresì ideologicamente complice del mantenimento dello status quo: l’insistenza di facciata sul carattere aperto e proteiforme dell’essere umano si tradurrebbe in una prospettiva statica e vuota, strutturalmente acritica perché incapace di porre le basi per un’effettiva contrapposizione alle condizioni di sfruttamento sociale[17].
a3) Faticando a resistere alla tentazione di tradursi in una scienza dei principii tesa a individuare ed elencare costanti antropologiche, l’AF si porrebbe lungo il solco di quelle forme di pensiero totalizzanti che subordinano la prassi alla teoria e innalzano la propria particolarità situata a norma generale[18].
b) L’AF rovescerebbe i tratti fondamentali dell’atteggiamento naturalistico, secondo cui le possibili entità del mondo sono soltanto i tipi di cose oggetto d’esame delle teorie scientifiche, i metodi delle teorie scientifiche sono gli unici a produrre autentica conoscenza e l’analisi concettuale tipica della filosofia non possiede un ruolo epistemico a sé stante, così che il termine ultimo di qualsiasi conoscenza teorica è l’integrazione con lo zoccolo duro delle scienze della natura[19]. Rispetto a simile orizzonte, l’AF risulterebbe infatti agli antipodi su ogni fronte, stante che considera come possibili entità anche tipi di cose non strettamente esaminate dalle teorie scientifiche («apertura al mondo», «eccentricità», «esonero», ecc.), ritiene che la conoscenza filosofico-antropologica non si ottenga seguendo esclusivamente i metodi delle teorie scientifiche e assegna al lavoro concettuale un ruolo epistemico chiave, segnatamente nell’autocomprensione della mente umana. In aggiunta, l’AF sembrerebbe persino sfidare il progetto naturalistico, perché pretenderebbe di supportare le proprie considerazioni “anti-naturalistiche” proprio con le conoscenze scientifiche[20], rivelando un’adesione al naturalismo di semplice facciata, ovvero strumentalmente tesa alla selezione guidata di quei riscontri empirici che meglio si presterebbero a dare sostegno a slanci ed elucubrazioni concettuali.
c) L’invito al superamento dell’umano e delle sue pretese normative assolutizzanti ha contraddistinto il pensiero e la cultura del secondo Novecento, portando alla proliferazione di svariati paradigmi post- e trans-umanisti – non sempre immuni da tensioni o persino contraddizioni interne. In un’epoca in cui l’imporsi dell’emergenza ambientale, il riconoscimento delle questioni di genere e decoloniali e l’irruzione di tecnologie infra-organiche va ridefinendo i contorni tanto della “politica interna” tra diversi esseri umani quanto della “politica estera” tra esseri umani e altri esseri, un discorso incentrato sull’umano come quello dell’AF appare inficiato dal difetto d’origine dell’antropocentrismo, ossia da un modo di ragionare intrinsecamente escludente e discriminatorio. L’AF rappresenterebbe così l’esito estremo di tutte quelle antropologie negative che definiscono l’umano sulla base di ciò che esso non è[21], propugnando un paradigma isolazionista denunciabile secondo perlomeno due direttive, complementari ma ugualmente distinguibili: c1) una antispecista, per la quale l’AF è uomo-centrica; c2) un’altra trans-femminista, per la quale l’AF è maschio-centrica.
c1) L’uomo-centrismo si baserebbe su un’impostazione di ragionamento tanto banale nelle premesse quanto esiziale negli effetti[22]. Si pone una distinzione categoriale tra “animalità” e “umanità” che equivale a una gerarchizzazione: gli esseri umani sono definiti tali alla luce del loro carattere eccedente ed esteriore, ovvero eccezionale, rispetto alle specie animali prese come un blocco unico. Anziché domandare che cosa faccia degli umani animali di un genere particolare, la ricerca si fonda all’inverso sull’interrogativo circa che cosa renda gli umani appartenenti a un genere differente da quello animale: se nel primo modo si cerca di determinare il perimetro della provincia interna al regno animale abitata dall’essere umano (l’essere umano quale specie di animale), nel secondo si individua invece un principio che si innesta in tale regno per elevare il suo possessore a un rango di esistenza separato e superiore (l’essere umano quale speciale rispetto all’animale). In un caso si ragiona in termini programmaticamente inclusivi, nell’altro in termini programmaticamente esclusivi – o si è animali o si è umani: non si può essere propriamente “animali umani”, in quanto l’umanità comincia laddove l’animalità finisce, in ossequio alla tradizionale scala naturae[23]. In tal senso, anche la descrizione in tono minore di un essere umano naturalmente carente rispetto alle altre specie viventi (mancanza di istinti guida, di armi di difesa naturali, ecc.) sarebbe una maschera ipocrita che – facendo leva sulla logica del riscatto e della redenzione rispetto all’inferiorità iniziale – alimenterebbe la retorica dell’eccezionalità e supremazia umana[24].
c2) Quanto appena illustrato sarebbe però soltanto la punta dell’iceberg: la visione del mondo naturale in scala ascendente esprimerebbe infatti una «gerarchia uomocratica» del tipo «uomo > donna > animali > piante > materia inanimata»[25]. Pertanto, non solo all’antropo-centrismo rispetto agli animali si affiancano lo zoo-centrismo rispetto alle piante e il bio-centrismo rispetto alla materia[26], ma gli stessi esseri umani vengono posti lungo una linea ascendente che culmina nell’uomo-maschio, anzi – ancor più esclusivamente – nel maschio-bianco-eterosessuale-abile, sul modello europeo-occidentale di individuo indipendente e razionale[27]. Osservata a risoluzione maggiore, la scala naturae ha dunque la forma “maschio bianco eterosessuale abile > maschio non-bianco eterosessuale abile > maschio non-bianco omosessuale abile > maschio non-bianco omosessuale disabile > donna bianca eterosessuale abile > donna non-bianca eterosessuale abile > … > animali > piante > materia inanimata”, senza dimenticare ogni possibile sotto-articolazione a livello animale, vegetale e inorganico. Tale progressione sarebbe l’esito più coerentemente estremo di quella «macchina antropologica» volta a insieme categorizzare e immunizzare, che fa della distinzione esterna tra umano e non-umano la base per operarne una interna tra umano e inumano: alla de-animalizzazione dell’umano si accompagna la de-umanizzazione di alcuni esseri (non più pienamente) umani[28]. Si tratterebbe di un dispositivo che assoggetta ogni diversità “umanə” a un’unica figura sovrana – a un Re assoluto.
- Conoscere se stessi. Tre possibili risposte
Indubbiamente, le accuse vanno a segno soprattutto tra i padri fondatori dell’AF, almeno parzialmente: basta pensare all’afflato metafisico di Scheler o all’idea dell’uomo come progetto speciale della natura di Gehlen, che renderebbero poco incisivi i tentativi di evidenziare come, per esempio, il tema della naturale artificialità, soprattutto nella declinazione plessneriana, esprimesse già uno slancio “post-umanista”[29]. Tuttavia, al di là del richiamo a questo o quell’autore, il punto è se le critiche appena presentate tocchino l’AF nei suoi stessi presupposti metodologici, ponendo il veto a ogni tentativo di comprendere l’essere umano nella sua unitarietà: è in quest’ottica che occorre confrontarsi con esse.
Ad a). È vero che ogni concettualizzazione si espone al rischio di prosciugare le differenze fino a partorire una nozione tanto astratta da non rendere più giustizia agli stessi particolari che intendeva rendere comprensibili. Tuttavia, bisogna evitare tanto la padella dell’essenzialismo che caratterizza l’umano in base a una dotazione speciale e immutabile, quanto la brace del “puntinismo” antropologico che, per non fare dell’essere umano una grandezza fissa, ne elimina del tutto il concetto, sfociando in un riduzionismo particolarista[30]. Descrivendo alberi senza chiedersi se esista una foresta, si svuota di significato la stessa attribuzione di “umano”, che – se ha senso di darsi – non può che essere unitaria, ancorché non sostanzialista.
Un esempio in tale direzione è la nozione hegelo-marxiana di Gattungswesen riconcepita aristotelicamente come «ente naturale generico»[31], prospettiva che trova eco più o meno diretta sia in esponenti dell’AF[32], sia in snodi rilevanti dell’etica contemporanea[33]. L’idea centrale è che la forma di vita umana sia ritagliata non specificamente su questo anziché quello, bensì sul “generale”, che però non esiste al di fuori di una qualche determinazione o incarnazione particolare. Mangiare, comunicare, convivere, ridere, pensare, e così via: sono tutte cose che gli esseri umani fanno per natura; ma si tratta di prestazioni in sé generiche, i cui modi non sono pre-vincolati a un’unica realizzazione di valore universale, bensì si determinano in modo storico-culturale. È una caratterizzazione tale per cui le potenzialità o “capabilità” umane non si danno separatamente dalle loro manifestazioni specifiche e variabili: è senza dubbio un’astrazione, ma che intende paradossalmente elevare a concetto la particolarizzazione stessa – ciò che forse l’attributo “umanə” potrebbe effettivamente condensare.
Evidentemente, dover individuare capacità il più possibile inclusive e trasversali, che esprimano caratterizzazioni aperte ma non evanescenti, non è certo impresa banale[34], ma simile impostazione indica una via per conservare il concetto di umano connotandolo tramite proprietà disposizionali, anziché categoriche o relazionali, a rischio rispettivamente di sostanzialismo e relativismo[35]. Inoltre, ragionare in termini di “tendenze a essere” rende piena giustizia al fatto che – secondo un Leitmotiv esistenzialista – l’umanità esiste come compito più che come dato[36], ragion per cui essa va sempre curata e rigenerata, denunciando ogni forma di de-umanizzazione, pratica come teorica[37].
Ad b). In ultima istanza, l’accusa di anti-naturalismo fa leva sull’equazione “conoscenza = scienza naturale”, che assume le nozioni tanto di scienza quanto di natura in forma particolarmente ristretta.
Dal primo versante, in prospettiva moderno-filosofica, nel naturalismo “scienza” possiede l’accezione di science, di matrice più analitico-empirista, e non quella di Wissenschaft, di matrice più sistematico-fondazionale. La prima ha criteri di scientificità particolarmente selettivi se portati all’estremo, tanto che le “scienze dello spirito” o “scienze umane” possono essere tali sempre soltanto tra virgolette, o la stessa filosofia va tradotta in experimental philosophy; viceversa, la seconda ha una semantica per così dire più inclusiva, testimoniata dall’esistenza di opere filosofiche variamente intitolate Scienza della logica, Dottrina della scienza, Gaia scienza, Filosofia come scienza rigorosa, ecc. Ora, la prima concezione pone effettivamente un veto definitivo alle aspirazioni dell’AF, per un motivo più generale e per uno più specifico. Quello più generale è la tendenza a non ammettere l’esistenza di problemi – come quelli genuinamente filosofici – non risolvibili mediante la scoperta di evidenze empiriche definitive e/o la messa in atto di misurazioni più sofisticate e accurate, ma che danno vita a un dibattito aperto, volto anche a individuare idee implicite e assunzioni acritiche[38]. Quello più specifico è il bando dai territori epistemici per quel complesso di pratiche concettuali tramite cui la mente umana cerca di rispondere alle domande che si pone su di sé, ovvero all’auto-indagine sulla natura umana[39].
Dal secondo versante, nel naturalismo l’equazione di base si profila come ancor più stringente, presentandosi come “conoscenza = scienza naturale = fisica”. È la nota prospettiva del riduzionismo fisicalista, per il quale la freccia esplicativa punta sempre verso il più basso/piccolo: ne segue una concezione di natura che non solo finisce per escludere a priori dal suo alveo tutto ciò che si tende a considerare umano (come la soggettività e la libertà)[40], ma che manifesta difficoltà anche nel dare piena ospitalità a fenomeni sì naturali ma non strettamente fisici, come quelli biologici[41]. Con criteri tanto esigenti, non solo un sapere come l’AF si trova incalzato da riduzionismi per così dire intermedi come «neuromania» e «darwinite»[42], che intendono ricondurre ogni tratto umano a una configurazione cerebrale o a un vantaggio evolutivo, ma le stesse discipline intorno alle quali l’AF si sforza di esercitare il proprio movimento orbitale risultano anch’esse a rischio di anti-naturalismo, se non ritradotte in termini fisicalisti.
Il fatto è che l’AF accoglie la tensione tra le canoniche prospettive della prima e della terza persona in chiave programmatica: l’essere umano è insieme soggetto e oggetto dell’indagine e proprio questo implica l’apertura a una dimensione auto-riflessiva che chiama in causa il lavoro genuinamente filosofico-concettuale. Più precisamente, il concetto di umano, come ogni just-so story antropologica che muova da riscontri empirici per dar vita a generalizzazioni ipotetiche[43], rappresenta uno strumento tramite cui l’essere umano si conosce non tanto nel senso del rispecchiamento di un dato, quanto piuttosto in quello dell’auto-comprensione, auto-definizione e auto-determinazione[44]. In breve, qui la concettualizzazione contribuisce alla costituzione dell’oggetto indagato. Perciò, sottostimare ogni definizione concettuale dell’umano significa rinunciare a una componente essenziale nella definizione pratico-riflessiva dell’essere umano stesso, amputando così i suoi stessi processi di auto-riconoscimento. È in questo senso che chi sposa l’approccio dell’AF può ritenere non in contraddizione una modalità naturalistica di spiegazione della condizione umana e un’attitudine persino metafisica, nel senso specifico di fare dell’autoriflessione su noi stessi in quanto esseri umani il fondamento di ogni altra questione filosofica[45].
Chiaramente, simile idea di conoscenza è più affine alla Wissenschaft che alla science. Questo certo ha i suoi pericoli (uno su tutti lo slancio idealista)[46], ma consente anche di evocare con più risolutezza i contorni di una visione maggiormente plurale della scienza e della natura, com’è per esempio quella del «naturalismo liberale», per cui l’alternativa epistemica non è tra un naturalismo riduzionista e un anti-naturalismo che va contro le teorie scientifiche meglio informate o al di là di esse[47]. Rimane così aperto lo spazio per un peculiare sapere antropologico impegnato a fare da raccordo interdisciplinare al fine di fornire qualche coordinata generale sull’esperienza naturalmente umana e umanamente naturale, proprio perché prende come “oggetto” della propria ricerca quell’essere che vive esplorando le possibilità aperte, ambivalenti e dinamiche tipiche della seconda natura: un essere cioè che è sì naturale, ma a modo proprio. Questo ci porta direttamente alla terza accusa.
Ad c). Se “antropocentrico” connota ogni discorso centrato sullo statuto dell’essere umano, allora il sapere dell’AF è inevitabilmente tale. Tuttavia, mettere al centro della ricerca una certa entità non implica farne il culmine dell’intera realtà: specificità e specialità vanno tenute ben distinte[48]. Ragionare in termini di differenze, dunque anche di confronti, non implica pensare in termini gerarchici; stabilire l’esistenza di una diversità non equivale a sancire un’eccezionalità, un posizionamento esterno e superiore: possiamo interrogarci sul modo in cui la forma di vita umana manifesta differenze rispetto ad altre forme di vita e ritenere tali peculiarità rilevanti per noi, senza con ciò considerarle universalmente più importanti[49]. D’altronde, rinunciare a una “tipizzazione” del vivente umano dovrebbe spingere a fare lo stesso anche con altri viventi, salvo ritenere – paradossalmente – che gli esseri umani facciano per qualche motivo eccezione, rivelandosi così atipici. Inoltre, una differenza relativa si distingue da una assoluta anche nel senso che il confronto tra umano e non-umano può essere dialettico, cioè volto a rintracciare relazioni differenziali e non a negare rapporti, individuando così una posizione in una struttura relazionale.
Questo apre a modi di pensiero diversi da quelli volti alla ricerca di proprietà umane di tipo sostanziale, cioè possedute necessariamente ed eternamente da tutti i membri della specie umana, esclusivo, cioè possedute unicamente da tali membri, e dicotomico, cioè o possedute o non possedute da tali membri tertium non datur. Se, poniamo, tutti gli esseri umani sono gli unici muniti di logos, perennemente e senza sfumature di grado, ne seguono non solo la secolare disattenzione verso ogni pensiero non linguistico extra-umano[50], ma anche l’emarginazione dai canoni antropologici di chi adotta modalità di comunicazione e ragionamento non verbali[51]. Una volta problematizzato il carattere implicitamente normativo di ogni modello di normale funzionamento di specie, il compito diventa esplorare la possibilità di concepire l’umano o “umanə” stilando non un catalogo di proprietà assolute, bensì una rosa di tendenze dal vario coefficiente di universalizzabilità[52]. Esattamente questo è quanto possiamo, se non dobbiamo, chiamare “antropologia filosofica”.
- Conclusioni. Tre compiti per il futuro
La discussione svolta ha messo in luce una serie di risorse concettuali utili allo scopo di consolidare lo statuto epistemico dell’AF, rigettando – o quantomeno ridimensionando – le accuse per cui essa darebbe inevitabilmente vita a una considerazione dell’essere umano astratta, anti-naturalistica, e antropocentrica. Al contempo, il presupposto affinché questa operazione di difesa possa giungere a completa maturazione è che si sappia riconoscere come i mutamenti culturali, tecnologici ed economici intercorsi nell’ultimo secolo abbiano investito anche le coordinate entro cui tradizionalmente si poneva la questione antropologica. Ciò implica che se, da un lato, siamo di fronte all’esigenza di persino rilanciare il problema della nostra auto-comprensione in chiave antropologico-filosofica, dall’altro siamo anche chiamati a occuparcene sviluppando una rinnovata sensibilità verso aspetti a cui in passato non si era dato il giusto risalto concettuale, nonché – prima ancora – sociale. Pertanto, in conclusione, uno sviluppo dell’AF attento a evitare di ricadere nell’astrattezza, nell’anti-naturalismo e nell’antropocentrismo sembra essere chiamato a svolgere tre compiti principali.
Il primo compito richiede di tematizzare in forma più articolata la compenetrazione tra stato potenziale e manifestazioni plurali che contraddistingue la condizione umanə, in modo da non sacrificare mai né le differenze né le somiglianze tra le diverse forme di vita, ed evitare così tanto esiti di imperialismo culturale mascherati da universalismo quanto esiti di isolamento culturale mascherati da particolarismo. Il secondo compito impegna non solo a mantenere costantemente vivo il legame tra riscontri fattuali ed elaborazione concettuale, ma altresì a definire il contributo specifico che la comprensione filosofica dell’umanə può dare alla costruzione di una visione plurale del discorso naturalistico, in cui anche la peculiarità del sapere riflessivo trovi adeguato riconoscimento. Il terzo compito, infine, chiama ad adottare un approccio in cui l’indagine sia sempre attenta a non confondere la specificità infra-naturale dell’essere umanə con la sua presunta eccezionalità extra-naturale: un orientamento capace insieme di non rinunciare all’individuazione di differenze relative e di non prendere queste come occasione per sancire una forma di superiorità assoluta e giustificare l’inevitabilità di certi comportamenti e stili di vita.
La sfida è senza dubbio esigente, ma – in fondo – rappresenta uno dei volti con cui ci si rivela un dato antropologico elementare, di cui non potremmo liberarci nemmeno se volessimo farlo: non basta il fatto di essere umani per sapere chi davvero siamo, ossia che cosa significhi divenire umanə.
[1] M. Scheler, Formare l’Uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, tr. it. FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 91-92.
[2] A. Gehlen, Prospettive antropologiche. L’uomo alla scoperta di sé (1961), tr. it. il Mulino, Bologna 2005, pp. 199-202.
[3] N. Rescher, Human Interests: Reflections on Philosophical Anthropology, Stanford University Press, Stanford 1990, pp. 1-5.
[4] A titolo esemplificativo, vedi rispettivamente A. Waldow, N. DeSouza (eds.), Herder: Philosophy and Anthropology, Oxford University Press, Oxford 2017, e P. Honenberger (ed.), Naturalism and Philosophical Anthropology: Nature, Life, and the Human between Transcendental and Empirical Perspectives, Palgrave, London 2015.
[5] Il caso forse più rilevante è C. Taylor, Human Agency and Language, Cambridge University Press, Cambridge 1985.
[6] Come É. Bimbenet, L’animal que je ne suis plus, Gallimard, Paris 2011; F. Tinland, La différence anthropologique. Essai sur les rapports de la nature et de l’artifice, Aubier, Paris 1977.
[7] Com’è il caso della filosofia derridiana con B. Stiegler, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo 1 (1994), tr. it. Luiss University Press, Roma 2023.
[8] Vedi la raccolta P. Ricoeur, Anthropologie philosophique. Ecrits et conférences, 3, Éditions du Seuil, Paris 2013.
[9] Tra i secondi, ricordo perlomeno tre lavori di impostazione molto diversa come G. Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008; A. Gualandi, L’occhio, la mano e la voce. Una teoria comunicativa dell’esperienza umana, Mimesis, Milano-Udine 2013; M. Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti, Roma 2003.
[10] Vedi p.e. A. Campodonico, L’uomo. Lineamenti di antropologia filosofica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013; G. Cicchese, G. Chimirri, Persona al centro. Manuale di antropologia filosofica e lineamenti di etica fondamentali, Mimesis, Milano-Udine 2016; S. Vanni Rovighi, Uomo e natura. Appunti per una antropologia filosofica, Vita e Pensiero, Milano 1992.
[11] H. Plessner, L’uomo. Una questione aperta, tr. it. Armando, Roma 2007, pp. 89-104; M. Horkheimer, Considerazioni sull’antropologia filosofica (1935), in Id., Teoria critica. I, tr. it. Einaudi, Torino 1974, pp. 197-223.
[12] B. Larsson, Essere o non essere umani. Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi (2024), tr. it. Cortina, Milano 2024.
[13] C. Wulf, Antropologia dell’uomo globale. Storia e concetti (2004), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 83.
[14] J. Fischer, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20 Jahrhunderts, Alber, Freiburg/München 2008. Vedi anche, per quanto segue, Id., La biofilosofia come nucleo del programma teorico dell’antropologia filosofica (2005), in N. Russo (a cura di), L’uomo e le macchine. Per un’antropologia della tecnica, Guida, Napoli 2007, pp. 165-195; J. Fischer, Exploring the Core Identity of Philosophical Anthropology through the Works of Max Scheler, Helmuth Plessner and Arnold Gehlen, in «Iris. European Journal of Philosophy and Public Debate», 1, 1, 2009, pp. 153-170.
[15] Mutuo la terminologia da D. Ihde, Should Philosophies have Shelf Lives?, in «Journal of Dialectis of Nature», 40, 1, 2018, pp. 100-106.
[16] Vedi C. Geertz, Interpretazione di culture (1973), tr. it. il Mulino, Bologna 1987, p. 60; T. Ingold, Against Human Nature, in N. Gontier, J.P. van Bendegem, D. Aerts (eds.), Evolutionary Epistemology, Language and Culture: A Non-Adaptationist, Systems Theoretical Approach, Springer, Cham 2006, pp. 259-281; C. Wulf, op. cit., p. 82.
[17] T.W. Adorno, Dialettica negativa (1966), tr. it. Einaudi, Torino 2004, p. 115; M. Horkheimer, op. cit.
[18] Vedi J. Habermas, Antropologia (1958), in G. Preti (a cura di), Filosofia, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 19-38.
[19] Vedi p.e. N. Chomsky, Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (2000), tr. it. il Saggiatore, Milano 2005, pp. 144-183; F. Laudisa, Naturalismo. Filosofia, scienza, mitologia, Laterza, Roma-Bari 2014.
[20] L. Landgrebe, L’anthropologie philosophique – une science empirique?, in «Alter. Revue de phénoménologie», 23, 2015, pp. 297-314.
[21] M. Coeckelberg, Human Being @ Risk: Enhancement, Technology, and the Evaluation of Vulnerability Transformation, Springer, New York 2013, pp. 195-196.
[22] Vedi T. Ingold, Humanity and Animality, in Id. (ed.), Companion Encyclopedia of Anthropology: Humanity, Culture and Social Life, Routledge, London-New York 1994, pp. 14-31; D. Lestel, L’animal est l’avenir de l’homme, Fayard, Paris 2010.
[23] Su cui vedi recentemente M.C. Nussbaum, Giustizia per gli animali. La nostra responsabilità collettiva (2023), tr. it. il Mulino, Bologna 2023, pp. 49-74.
[24] Vedi p.e. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 9-42; F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all'impoverimento, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 3-88; P. Sloterdijk, Sfere. Vol. III (2004), tr. it. Cortina, Milano 2015, pp. 663-676.
[25] C. Bottici, Nessuna sottomissione. Il femminismo come critica dell’ordine sociale (2021), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 312-342.
[26] N.K. Hayles, L’impensato. Teoria della cognizione naturale (2017), tr. it. effequ, Firenze 2021.
[27] R. Braidotti, Il postumano 3. Femminismo (2021), tr. it. DeriveApprodi, Roma 2023.
[28] G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002; R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006, pp. 5-21; Id., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, pp. 95-131.
[29] T. Ebke, Est-il simple d’être humaniste dans l’anthtopologie philosophique?, in «Alter. Revue de phénoménologie», 23, 2015, pp. 132-149. Vedi anche J. de Mul, Philosophical Anthropology 2.0: Reading Plessner in the Age of Converging Technologies, in Id. (ed.), Plessner’s Philosophical Anthropology: Perspectives and Prospects, Amsterdam University Press, Amsterdam 2014, pp. 457-475.
[30] G. Bertram, Antropologia della seconda natura (2005), in «Lo Sguardo», IV, 2, 2010, pp. 1-16.
[31] Vedi particolarmente C. Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004; ma vedi già T. vàn Toàn, Note sur le concept de “Gattungswesen” dans la pensée de Karl Marx, in «Revue philosophique de Louvain», 69, 4, 1971, pp. 525-536.
[32] Come G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione (1934-1936), tr. it. Palomar, Bari 1993, p. 65; Id., Amare ieri (1986), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 86-87.
[33] Su tutti M.C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti (2000), tr. it. il Mulino, Bologna 2001.
[34] Vedi p.e. J. Begon, Capabilities for All?, in «Social Theory & Practice», 43, 2017, pp. 154-179.
[35] Vedi G. Pezzano, The Concept of Property Between Technology, Anthropology and Ontology, in «Philosophy & Technology», 37, 1, n. 11.
[36] In chiave più esplicitamente antropologica, vedi F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2013.
[37] Vedi É. Balibar, Human Species as Biopolitical Concept, in «Radical Philosophy», 2, 11, 2021, pp. 3-12.
[38] Vedi L. Floridi, The Logic of Information, Oxford University Press, Oxford 2019, pp. 3-26; D. Papineau, Philosophical Naturalism, Blackwell, Oxford 1993, p. 3.
[39] J. Dupré, Natura umana. Perché la scienza non basta (2001), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2007.
[40] L. Illetterati, Nature and Technology: Towards an Antinaturalistic Naturalism, in «Pólemos», I, 2, 2020, pp. 15-33.
[41] Vedi D.J. Nicholson, J. Dupré (eds.), Everything Flows: Towards a Processual Philosophy of Biology, Oxford University Press, Oxford 2018.
[42] Vedi R. Tallis, Aping Mankind: Neuromania, Darwinitis and the Misrepresentation of Humanity, Routledge, London-New York 2016.
[43] Penso p.e. a M. Tomasello, Diventare umani (2018), tr. it. Cortina, Milano 2019.
[44] Lo rimarca M. Gabriel, Ich ist nicht Gehirn: Philosophie des Geistes für das 21. Jahrhundert, Ullstein, Berlin 2015.
[45] Vedi E. Tugendhat, Dalla metafisica all’antropologia, tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2014.
[46] Come ammonisce R. Dreon, Human Landscapes: Contributions to a Pragmatist Anthropology, SUNY, New York 2022.
[47] Vedi M. De Caro, D. Macarthur (eds.), The Routledge Handbook of Liberal Naturalism, Routledge, London-New York 2022.
[48] Come si esprime F. Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Laterza, Roma-Bari 2007.
[49] Vedi C.M. Korsgaard, Fellow Creatures: Our Obligations to the Other Animals, Oxford University Press, Oxford 2018, pp. 3-15.
[50] Sulla cui natura vedi J.L. Bermúdez, Thinking Without Words, Oxford University Press, Oxford 2003.
[51] Vedi p.e. P. Ladd, Understanding Deaf Culture: In Search of Deafhood, Multilingual Matters Ltd, Clevendon-Buffalo-Toronto-Sydney 2003.
[52] Vedi F. Monceri, Etica e disabilità, Morcelliana, Brescia 2017, pp. 87-96.