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Il luogo e il senso: creazione e significazione degli spazi nel mondo globale

Autore


Paolo Amodio - Fabiana Gambardella

Università degli studi di Napoli Federico II

Professore ordinario di Filosofia morale - Professoressa associata di Filosofia morale


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S&F_n. 32_2024

Abstract


Place and meaning: the creation and signification of spaces in the global world

“This will kill that. The book will kill the edifice”. These are the sober word that Victor Hugo makes the priest pronounce when, at the down of modern age, he looked on with prophetic dismay at the advent of printing with movable type, a revolution that would completely transform not only the face and features of the human being, but even the stones, the physical and material space of signification, the dimension of belonging and the sacred, that an “emancipated humanity” would change with the use of reason, undermining every form of dogmatic authority and its symbol. If the ways human beings shaped the space around them indicate their evolution - the changes in their anthropological profile - then we wonder what form stones could take in an era when even the paper book is replaced by the changing words that appear on bright and seductive screens – the irreplaceable extensions of a super-emancipated species. Actually, the digital revolution also contributes to the current changing in the organization of physical space. After all, anthropogenesis is always a “Home business” , evolution is “the unspoken drama” of creating space. Phenomenologically and biologically living means “positioning oneself”, being in space first as sentient and signifying body, even before the logos has formalized – in the sense of representation – this original experience. So living is always a delimitation experience, the delineation of boundaries. The “Sapiens 2.0” continues to construct his world as a place of signification and habitability, modelling his own “surroundings” in a way that is once again unprecedented, due to the transformations that he produces and which, in a circular and recursive process, continue to renew his features As plastic, versatile and changing entities, we exist in a global world, we easily move between semantically relevant places – home, neighbourhood, square, café – and the so-called “non-places”, spaces of transit, from airports and shopping malls to the web, which has now became the sapiens’ second home, the home within the home, or rather the ubiquitous home, in which we spend most of our time. The end of the strong subject of Cartesian metaphysics, replaced by a nomadic and fluid subjectivity, seems to be in line with a new reconfiguration of space: the temporary exposition replaces the monument; event supplants the codified liturgy of the ritual; online forum or the participation to the initiative through the click “Going”, replaces the square and the physical space of the relationship and contestation; smart working succeeds the factory and the office as spaces of production and sharing of work and ideas. From these renewed material and existential assumptions, does it still make sense to think the space as a cultural homeland?  Moreover, globalized contemporaneity is developing through paradoxes that affect our own political, economic and social organization and have repercussions on spaces. Politically, the old nation-state, the space par excellence of belonging and identity, seems to have been supplanted by a series of supranational agencies who actually make decisions. The lucky inhabitants of the West easily traverse a seemingly borderless world, feeling themselves citizens of the world; neo-liberalism relies on the freedom of movement of goods and men reduced to commodities. There is a clear division that determines two hierarchically places: a center and a periphery that is always a marginality to be kept under control through more or less overtly violent practices of control-exclusion. This dossier intends to investigate the anthropological evolutions affecting the present, starting from the way in which contemporary man shapes and signifies spaces. The perception and configuration of space is in fact changing abruptly, in the light of the end of “grand narratives”, that is, of the possibility of investing places with mythical-ritual elements capable of establishing shared values and a feeling of “us”.

[…] Ma la città non dice il suo passato,

lo contiene come le linee di una mano,

scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre,

negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini,

nelle aste delle bandiere,

ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli svirgole.

Italo Calvino

 

 

 

Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti,

si avviano alla morte della passione e dell’umano:

per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria,

a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo.

Ernesto de Martino

 

 

 

Sire, io vengo dall’altro paese. Nelle città ci annoiamo,

non c’è più un tempio del Sole […] I diversi quartieri di questa città

potrebbero corrispondere all’intera gamma di umori

che ognuno di noi incontra per caso

nella vita di ogni giorno

Ivan Chtcheglov

 

 

 

 

«Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio»[1]. Sono le parole cupe che Victor Hugo fa pronunciare al prete che agli albori dell’età moderna sentiva con profetico sgomento l’avvento della stampa a caratteri mobili, una rivoluzione che avrebbe trasformato completamente non soltanto il volto e le sembianze dell’umano ma persino le pietre, lo spazio fisico e materiale di significazione, la dimensione stessa dell’appartenenza e del sacro, che un’«umanità emancipata» avrebbe modificato con l’uso della ragione, scalzando ogni forma di autorità dogmatica e i suoi simboli.

Non si trattava tuttavia soltanto di questo: in effetti la rivoluzione presentava una portata più vasta: il pensiero umano che cambia forma, si accinge a mutare anche modo di espressione; perciò «l’idea capitale di ogni generazione non si sarebbe scritta più con la stessa materia e nello stesso modo». Il libro di pietra, l’edificio, i simboli duraturi che l’uomo ha forgiato nel tempo - veri e propri dispositivi antropogenici - sarebbe stato sostituito da una nuova arte, quella di carta, in fondo, secondo l’autore ancora più duratura.

Se è vero che i modi attraverso i quali l’umano forgia lo spazio intorno a sé, raccontano e indicano le sue evoluzioni, i cambiamenti del suo profilo antropologico, ci chiediamo allora quale forma assumano le pietre nell’epoca in cui anche il libro di carta, “libro del mondo” nel quale era possibile sintetizzare lo stesso universo e le sue leggi, viene sostituito dalla parola liquida e fugace che compare su schermi luminosi e seducenti, i prolungamenti insostituibili di una specie super-emancipata.

Questa nuova rivoluzione, di fatto, contribuisce a mutare ancora la forma che lo spazio fisico va assumendo oggi.

In fondo l’antropogenesi è sempre un “affare di casa”, l’evoluzione altro non è che il “dramma silenzioso” della creazione di spazi ed essere nel mondo è in prima istanza “essere nello spazio”, creare una dimensione climaticamente confortevole, affinché il lussureggiare della specie possa manifestarsi[2]. Fenomenologicamente e biologicamente infatti, vivere significa “posizionarsi”[3], stare nello spazio anzitutto come corporeità senziente e significante, prima ancora che il logos abbia formalizzato, nel senso della rappresentazione, tale originaria esperienza[4]. Il sapiensrinnovato continua a costruire il mondo come luogo di significazione e abitabilità, modella i propri “dintorni”[5] in maniera ancora una volta inedita, a causa delle trasformazioni che egli stesso produce e che, in un processo circolare e ricorsivo, continuano a rinnovarne le fattezze.

Enti plastici, versatili e cangianti, esistiamo in un mondo globale, ci spostiamo agevolmente e senza soluzione di continuità tra luoghi semanticamente rilevanti - la casa, il quartiere, la piazza, il bar – e i cosiddetti “non-luoghi”[6], spazi di transito, dagli aeroporti, ai centri commerciali, fino alla rete, divenuta ormai seconda dimora del sapiens, casa nella casa, o piuttosto casa ubiqua, nella quale trascorrere la maggior parte del tempo. Si direbbe allora che all’affrancamento dal soggetto forte della metafisica cartesiana, sostituito da una soggettività nomade e fluida[7], sembri corrispondere un’analoga configurazione dello spazio: l’installazione temporanea sostituisce il monumento; l’evento soppianta la liturgia codificata del rito; il forum in rete o l’adesione all’iniziativa attraverso il click su “parteciperò”, sostituisce la piazza e lo spazio carnale dell’incontro e della contestazione; lo smart working succede alla fabbrica e all’ufficio come spazi fisici della produzione e condivisione di lavoro e idee. A partire da questi rinnovati presupposti materiali ed esistenziali ha ancora senso pensare alla costruzione dello spazio come patria culturale? Miti e riti, da sempre fondamentali nella creazione simbolica dei luoghi e soprattutto nella condivisione dei valori che da essi procedono e che istituiscono uno spazio sociale, sono ancora efficaci a garantire il senso di communitas e il superamento collettivo dei momenti di crisi?[8]

Inoltre la contemporaneità globalizzata si sviluppa attraverso paradossi che riguardano la nostra stessa organizzazione politica economica e sociale e si ripercuotono sugli spazi. Dal punto di vista politico il vecchio Stato Nazione, spazio per eccellenza di appartenenza e identità pare soppiantato da una serie di agenzie sovranazionali che hanno preso il sopravvento dal punto di vista decisionale; i fortunati abitanti dell’Occidente attraversano con facilità spazi fluidi e all’apparenza privi di barriere, sentendosi cittadini del mondo; il neoliberismo economico si mantiene sulla libertà di circolazione di merci o di uomini ridotti a merci; tuttavia a questa velocità di movimento, agevolezza di incontri e di scambi per alcuni, fa da contraltare la costruzione antica di spazi fisici dell’esclusione, quelli della vecchia società disciplinare, che la società globale del desiderio sembrava aver abbandonato[9]: i muri che dividono in diverse zone del mondo uno spazio considerato civile, abitabile, confortevole, da uno spazio del male, percepito come una punizione per chi vi sta, una sorta di peccato atavico da espiare. Una netta divisione che determina due luoghi gerarchicamente determinati: un centro e una periferia che è sempre marginalità da tenere sotto controllo attraverso pratiche più o meno palesemente violente di controllo-esclusione.

Il presente dossier intende interrogarsi dunque sulle molteplici declinazioni dello spazio: dal senso costitutivo dell’abitare, dall’esperienza cioè dello spazio come relazione originaria, coestensiva al nostro corpo, attraverso la fenomenologia heideggeriana, l’antropologia filosofica, con autori come Max Scheler e Erwin Strauss, che riflettono sulla spazialità vissuta; allo spazio foucaultianamente inteso come un campo di tensioni tra potere e sapere, le cui forme non sono universalizzabili, ma sempre storicamente situate e contingenti e che costituisce l’architrave di specifici processi di soggettivazione; alle attuali cartografie politiche del dominio, al contempo rigide e liquide, quelle di una contemporaneità caratterizzata dal progressivo svuotamento dei luoghi, dominata da una spazialità che pare indistinguibile, caratterizzata da dimensioni eminentemente “distrattive”[10], come le nuove bolle abitative della rete, in cui l’esperienza maturata in spazi inediti, sembra determinare una nuova possibilità spaziale, nonostante sia incapace di spazializzarsi.

E allora spesso le nuove estensioni tecnologiche sembrano rientrare in un orizzonte di organizzazione del mondo, che si rifà al piano della gestione e del controllo e sempre meno dell’abitare.

Queste inedite configurazioni di senso a tratti sembrano decretare l’estinzione del sogno moderno di razionalità, sembrano essere il sigillo di uno spazio che va alla deriva.

La percezione e la configurazione dello spazio che va dunque repentinamente modificandosi, alla luce della fine delle grandi narrazioni, sembra quasi escludere la possibilità di investire i luoghi di elementi mitico-rituali atti a istituire valori condivisi e sentimento del “noi”. È davvero così?


[1] V. Hugo, Notre-Dame de Paris, (1831), tr. it. Mondadori, Milano 2003, p. 209.

[2] P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001), tr. it. Bompiani, Milano 2004, p. 125.

[3] Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006.

[4] Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Bompiani, Milano 2003.

[5] J. Von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili (1934), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010.

[6] M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità (1992), tr. it. Elèuthera, Milano 2009.

[7] P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio (1994), tr. it. Feltrinelli, Milano 1994.

[8] E. de Martino, Furore, Simbolo, Valore (1962), Feltrinelli, Milano 2002.

[9] Byung Chul Han, La società della stanchezza (2010), tr. it. Nottetempo, Milano 2020.

[10] R. Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano (2001), tr. it. Quodlibet, Macerata 2006.

 

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