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Du temps et des circonstances. Sulla portata del trasformismo di Jean-Baptiste de Lamarck

Autore


Vallori Rasini

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Professoressa ordinaria di Filosofia morale

Indice


  1. Cambiare visione del mondo
  2. Distorsioni, malintesi, pregiudizi
  3. Il milieu, le circostanze ambientali e la sfera morale
  4. Antropologia ed ecologismo

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S&F_n. 31_2024

Abstract


Du temps et des circonstances. On the extent of Jean-Baptist de Lamarck's transformism

Jean-Baptist Lamarck's transformist theory was able to coordinate decisive arguments to undermine a static and prejudiced view of nature. However, many of his rich insights have been underestimated, distorted or ignored altogether. Particularly important is his insistence on the complex dynamics that lead to the transformation of organic needs, forms and capacities. Over long periods of time, these dynamics profoundly influence the system of relationships between living beings and the environment. This system is dependent on a multiplicity of variables increasing with organic complexification and the appearance of the human being. The setting of a dialectical relational system makes Lamarck a forerunner of contemporary ecologism.

1. Cambiare visione del mondo

Benché il nome di Lamarck suoni in qualche modo noto, il reale valore e il peso teorico della sua concezione trasformista – che al contempo fornisce elementi per una feconda filosofia del vivente – pare rimangano sconosciuti non solo nell’ambito della media cultura ma altresì in quello della cosiddetta comunità scientifica. Qualche eccelso storico della scienza ne ha fatto il proprio oggetto di studio[1]; si tratta tuttavia di rari casi, guidati da un interesse specialistico. Recentemente, in seguito ai significativi progressi dell’epigenetica, il nome di Lamarck è riemerso, talora in maniera cursoria, talora con accenni a qualche aspetto della sua complessa teoria biologica, magari per concludere che forse «non aveva tutti i torti»[2]. Già, perché all’interno della storia dell’evoluzionismo Jean-Baptiste de Lamarck viene generalmente presentato come “quello dalla parte del torto”, l’evoluzionista della teoria “sbagliata” da contrapporre a quella darwiniana. Non è questo il luogo in cui ricostruire motivi e circostanze che hanno ingiustamente condotto all’oblio del suo ruolo nella storia del sapere occidentale; ciò che invece si vorrebbe evidenziare è come, rispetto alla attuale concezione ecologica del rapporto tra organismi e ambiente, la sua posizione, benché ancora vincolata a una visione settecentesca del mondo naturale, appaia estremamente ricca e lungimirante.

Presumibilmente indotto dal suo meticoloso lavoro di raccolta e valutazione di dati botanici e zoologici, dopo una prima fase di adesione al fissismo, Lamarck capovolse la propria posizione sostenendo una teoria della trasformazione lenta, graduale, ininterrotta delle specie che, nonostante la limitatezza degli strumenti a sua disposizione ma soprattutto la forte opposizione di molti scienziati e teologi naturalisti, cercò di suffragare con grande coerenza e ottimi argomenti[3]. La trasformazione delle caratteristiche degli organismi nel corso delle generazioni rappresenta anzi un dato talmente primario nalla sua concezione da rendere instabile il concetto stesso di “specie”. La consistenza di questo concetto sta infatti nell’indicare il conio di una forma costante, bene identificabile nella ripetizione perpetua; ma con l’arricchirsi delle collezioni di prodotti naturali la convinzione dell’esistenza di “specie” intese in questo modo comincia ad attenuarsi così che, dice Lamarck,

ci troviamo costretti a una determinazione arbitraria, che ora ci porta a prendere le più piccole differenze esistenti fra le varietà come caratteri di quelle che chiamiamo specie, ora ci fa dichiarare varietà di una qualche specie individui solo un poco diversi, che altri considerano rappresentanti di un’altra specie[4].

 

Le prove dell’esistenza di innumerevoli sfumature, differenze talora minime e insignificanti, che immesse nel divenire del tempo paiono destinate a scomparire, restituiscono il quadro di una stabilità solo apparente che lo fanno optare per un valore solo provvisorio e convenzionale del termine “specie”:

La natura non mi presenta assolutamente altro che individui che si succedono gli uni agli altri per via riproduttiva, e che provengono gli uni dagli altri. Dunque le loro specie non sono che relative, e non lo sono che temporaneamente. Tuttavia, al fine di facilitare lo studio e la conoscenza di tanti corpi diversi, è utile dare il nome di specie a ogni collezione di individui simili, che la riproduzione mantiene nello stesso stato finché le circostanze della loro collocazione non cambino abbastanza da modificare le loro abitudini, il loro carattere, la loro forma[5].

 

Certo, come è stato notato a più riprese, la rivoluzione da lui operata non consiste in un’illuminazione inedita, ma nell’avere saputo proporre una lettura originale dei fenomeni della vita grazie a una sintesi innovativa di tesi e considerazioni in parte già note all’epoca[6]. Ma questo “riordino” delle conoscenze è stato decisivo. Il passaggio principale verso la costruzione dell’ipotesi trasformista consiste nel capovolgimento delle argomentazioni tipiche della teologia naturale, fondate sulla esibizione di una mirabile coerenza tra la configurazione di luoghi e sistemi di vita ed esigenze specifiche degli organismi, da cui poter concludere che le forme di organizzazione dei viventi devono essere da sempre le stesse, create una volta per tutte nella modalità attualmente osservabile. Lamarck suggerisce, al contrario, di considerare che non siano le circostanze ad aderire a una costituzione immodificabile di piante e animali, bensì gli organismi ad adattarsi “nel tempo” a mutevoli e varie circostanze ambientali. Nella Prolusione del 1800 al suo corso di Zoologia degli insetti, dei vermi e degli animali microscopici per il Museo di Storia naturale di Parigi troviamo la prima formulazione del concetto di evoluzione naturale: «sembra […] che tempo e circostanze favorevoli siano i due principali mezzi che la natura utilizza per far esistere tutti i suoi prodotti»[7], i quali dunque non sono affatto immutabili.

Potrei dimostrare – aggiunge – che non è affatto la forma del corpo e quella delle sue parti che determina i comportamenti e il modo di vita, ma che sono al contrario i comportamenti, il modo di vita e tutte le circostanze influenti ad avere col tempo costituito la forma del corpo e le singole parti degli animali. Acquisite nuove forme sono state acquisite nuove funzioni, e a poco a poco la natura è giunta allo stato in cui la vediamo attualmente[8].

 

Questo scambio nella direzione delle inferenze porta con sé una visione mobile e attiva del mondo naturale, introduce la storicità nella dimensione organica e soprattutto trasforma le “corrispondenze” in “relazioni”, in un intreccio indefinito di interferenze e di sollecitazioni a doppio senso, più o meno incisive a seconda delle condizioni e del contesto sostanzialmente casuale in cui si determinano. L’enorme portata di questa inversione di prospettiva e la complessa dinamica di relazioni a cui si affida la concezione di Lamarck è stata spesso sommariamente ricondotta all’idea di una evoluzione degli organismi “in vita”, direttamente causata dall’azione dell’ambiente ovvero dovuta all’uso e al disuso degli organi. E conosciamo tutti l’abusato esempio del collo della giraffa – un organo “allungabile” (magari nell’arco di una vita) affinché l’animale possa raggiungere la più alta vegetazione – con cui viene riassunta la sua “errata” concezione evoluzionistica. Una semplificazione riduttiva, una banalizzazione strumentale che continua a testimoniare, anche quando accompagnata da una blanda concessione al primato cronologico di Lamarck, una lunga tradizione di misconoscimenti.

 

2. Distorsioni, malintesi, pregiudizi

Aduso a muoversi in una comunità scientifica antagonistica e polemica, lo stesso Lamarck era d’altronde consapevole sia delle difficoltà che comportava il nuovo punto di vista teorico sia della facilità con cui certe sue affermazioni si esponevano al fraintendimento. In particolare, ne riconosce il rischio dinanzi alla stringata formula «le circostanze influiscono sulla forma e l’organizzazione degli animali»[9]. «È certo – dice a questo proposito nella Zoologie Philosophique – che se si prendesse quell’espressione alla lettera mi si attribuirebbe un errore; perché, di qualsiasi genere possano essere le circostanze, esse non operano mai direttamente, sulla forma e l’organizzazione degli animali, alcuna qualsivoglia modificazione»[10]. Ecco dunque un primo, grossolano errore che, nonostante l’avvertimento di Lamarck, ha continuato a perpetuarsi nel tempo: quello di una influenza “diretta” dell’ambiente sugli organismi, dell’esistenza di un rapporto causale, lineare e immediato, tra i fenomeni ambientali e i cambiamenti degli organi, il loro rafforzamento o l’atrofizzazione, la loro comparsa o scomparsa. Ebbene, non è questa la posizione di Lamarck.

Egli, tuttavia, potrebbe avere favorito simili distorsioni con il frequente ricorso a fatti dell’accadere quotidiano o a testimonianze facilmente disponibili in ambito scientifico e culturale, allo scopo di avvicinare all’esperienza comune un’idea che richiedeva un notevole sforzo immaginativo. Per lo stesso motivo, egli tende a partire dall’osservazione del comportamento e della natura dell’essere umano per avviare una riflessione più profonda sulla realtà organica in generale, sulla eventualità che, a monte delle abitudini che possono influenzare anche l’organizzazione fisica del vivente, sia ragionevole ipotizzare l’esistenza di particolari circostanze di grande portata e protrattesi nel tempo:

Si è già da molto tempo notato l’influenza delle diverse condizioni della nostra organizzazione sul nostro carattere, le nostre inclinazioni, le nostre azioni e anche le nostre idee ma mi sembra che ancora nessuno abbia fatto conoscere quella delle nostre azioni e delle nostre abitudini sulla nostra organizzazione stessa. Ebbene, poiché quelle azioni e quelle abitudini dipendono interamente dalle circostanze in cui ci troviamo abitualmente, cercherò di mostrare quanto è grande l’influenza che esercitano tali circostanze sulla forma generale, lo stato delle parti e anche l’intera organizzazione dei corpi viventi[11].

 

Il subentrare di variazioni organiche per l’azione dei cambiamenti situazionali bene si evince, d’altronde, guardando al lavoro di selezione praticato dagli allevatori e dagli agricoltori, agli effetti della domesticazione e al risultato dei molti esperimenti di ibridazione botanica:

Dove troviamo in natura i nostri cavoli, le nostre lattughe ecc. nello stato in cui li abbiamo nei nostri orti? E non accade forse la stessa cosa per molti animali che la domesticazione ha cambiato e considerevolmente modificato? Quante razze diversissime di polli e di piccioni domestici ci siamo procurati allevandoli in circostanze del tutto nuove per loro e in paesi lontani dagli originari, razze che invano ci sforzeremmo oggi di ritrovare tali e quali in natura![12].

 

Ma il richiamo a questi esempi è solo un aggancio di superficie, mentre lo scopo reale dell’argomentazione di Lamarck è condurre verso un’idea più profonda e assai più complicata, alla quale non vengono incontro osservazione diretta o facili dimostrazioni: l’evoluzione costante e continua degli organismi in natura, e dunque la trasformazione di quelle categorie che chiamiamo “specie” – raggruppamenti di viventi sui quali vige la più ampia discrezionalità – che non ha né i tempi né le modalità causali “semplici” che si manifestano nei casi forzati dalla manipolazione umana. Secondo la legge della natura,

il potere modificatore delle circostanze agisce ininterrottamente e dappertutto sui corpi che godono della vita, ma ci rende difficile constatarlo il fatto che i suoi effetti divengono manifesti e rilevabili (soprattutto negli animali) solo dopo lunghi periodi di tempo[13].

 

Tempi dunque straordinariamente lunghi, difficili da immaginare e in contrasto con le pregiudiziali rappresentazioni canoniche e bibliche dell’origine della Terra; ma vanno messi in conto anche altri fattori, come l’ampiezza del fenomeno evolutivo, concernente intere popolazioni di viventi, qualora sottoposte a variazioni ambientali di enorme portata: a sua volta un fattore che sfugge alla comprensione media dei fatti della vita. Quindi solo aprendo la mente a una diversa dimensione dell’esistenza organica si rende possibile concepire l’insorgenza di nuove necessità, di bisogni inattesi, di abitudini prima sconosciute, da cui possano prendere avvio trasformazioni profonde e durature. Ma soprattutto, occorre scoprire l’intreccio di una molteplicità di elementi, estremamente complesso e articolato, nel fluido gioco delle relazioni dei viventi.

 

3. Il milieu, le circostanze ambientali e la sfera morale

Nel corso del Settecento, il termine milieu veniva usato in ambito scientifico prevalentemente con il significato meccanicistico di “mezzo” o di “intermediario”, per indicare, come nel pensiero di Newton, il “fluido” in cui sono immersi o mediante cui sono correlati i corpi fisici. Adottato dai naturalisti nello studio degli organismi, il termine milieu tende ad abbandonare il valore “separativo” che sussiste nell’idea di “qualcosa che circonda” e nel concetto di “clima” (un insieme di qualità fisiche esterne come la temperatura, l’altitudine o l’umidità) e ad assumere quello di una serie di elementi necessari per la sopravvivenza degli organismi. Lamarck si attiene a questo significato piegato biologicamente, considerando l’ambiente un complesso di fattori, non indipendenti tra loro, essenziali alla produzione e al mantenimento dei processi che rendono possibile la sussistenza e lo sviluppo della vita[14]. La ridefinizione del concetto di milieu da parte di Lamarck prevede senz’altro un aumento quantitativo degli elementi in grado di influenzare le funzioni vitali, consiste però principalmente in una diversa impostazione del rapporto tra agenti esterni e processi vitali. Questi fattori non determinano un’influenza diretta e meccanica sugli organi e sulle forme dei viventi, e dunque questi ultimi non subiscono passivamente le conseguenze dell’esposizione a quei fattori. Le relazioni degli organismi con l’esterno sono mediate sia dalla molteplicità delle interferenze causali sia dalle capacità di risposta – variabili e spontanee – da parte degli organismi alle sollecitazioni ambientali. Si configura così un intricato sistema di azioni reciproche, descrivibile mediante una rappresentazione dialettica e spiraliforme, la cui complessità dipende dalla imprevedibile plasticità della vita[15].

Nonostante un impianto sostanzialmente deterministico, nel sistema lamarckiano le risultanti dei processi devono molto alla casualità degli intrecci e delle interferenze tra agenti in gioco. È vero che Lamarck individua alcune “tendenze generali” nell’evoluzione della natura, e in particolare il fenomeno della graduazione dei viventi e la progressiva complessificazione delle strutture organiche ricoprono una posizione centrale; questi fenomeni si stagliano tuttavia sullo sfondo di una miriade di percorsi intricati, interrotti e ripresi, di ramificazioni multidirezionali e frastagliate, di causazioni anomale o impreviste. L’evoluzione non costituisce una manifestazione “regolare” e non presenta un andamento uniforme. Quando nei suoi scritti troviamo il riferimento a un “piano della natura” o a un “piano della vita”, non siamo autorizzati a immaginare una pianificazione preliminare dei percorsi evolutivi; allo stesso modo, una locuzione come “sistema organizzativo” non deve far pensare a una progettazione fissa, a un disegno preordinato al quale si conformi invariabilmente la struttura organica dei viventi[16]. Tanto meno autorizzano a ipotizzare interferenze provvidenziali certi richiami – cautelativi e, dati il tempo e il clima culturale, probabilmente inevitabili – a un “Supremo Autore”: si rendono del tutto superflui dinanzi al ruolo essenziale riconosciuto ai molti elementi circostanziali che concorrono a rendere indefinito il plastico percorso della natura[17].

A questo proposito, forse per mantenere indeterminato quanto più possibile l’insieme degli agenti ambientali in gioco nelle dinamiche organiche, Lamarck sembra usare con maggiore frequenza il termine circonstances rispetto a milieu. Nonostante il suo nuovo significato, soprattutto nella Philosophie zoologique, milieux si presenta raramente, per lo più al plurale e accompagnato dall’aggettivo environnants, a indicare una tipologia particolare di fattori tra i molti che concorrono a produrre le circostanze di vita organiche. Queste “inesauribili” circostanze, nel corso di tempi straordinariamente lunghi, generano i percorsi organici scaturendo dalle più differenti origini:

le principali nascono dall’influenza del clima, dalle variazioni di temperatura dell’atmosfera e di tutti gli ambienti circostanti, dalla diversità dei luoghi, da quella dei comportamenti, dei movimenti, delle azioni, da quella dei modi di vivere, di conservarsi, di difendersi, di riprodursi ecc. [18].

 

Alla complessità di questo insieme va aggiunto che gli studi sul cosiddetto “ambiente culturale”, fioriti in epoca illuministica, hanno sollecitato la possibilità di considerare, non solo per l’essere umano ma per il vivente in generale, l’idea di una dimensione “prodotta” accanto all’esistenza di quella semplicemente “data”; e contestualmente anche di valutare l’ipotesi di un “ambiente interno”, di una serie cioè di condizioni proprie del vivente, che interagiscono con l’ambiente esterno. Benché non si sia espresso esattamente in questi termini, Lamarck individua nella “sfera morale”, quella cioè dei comportamenti caratteristici dell’organismo, un ambito di fattori interiori le cui dinamiche si intrecciano costantemente con l’esterno nel determinare l’andamento dei processi vitali e le loro trasformazioni[19]. I fattori dell’ambito morale si rendono possibili sulla base delle specifiche facoltà del vivente e mediante i relativi processi, diversi a seconda della tipologia di organismo e della particolare evoluzione che li ha riguardati. Non sono esclusivi dell’essere umano bensì, in misura e forma diversa, appartengono a tutti i viventi che abbiano sviluppato almeno un certo livello di sensibilità. Indagare origine e modalità di sviluppo di detti processi e facoltà è parte essenziale del compito della biologia[20].

Oggetto dello studio degli animali non è solo quello di conoscere i vari tipi e di determinarne tutte le differenze precisando i loro caratteri particolari. È anche quello di arrivare a conoscere l’origine delle facoltà di cui godono, e le cause che da una parte determinano e mantengono la vita, e dall’altra la fanno progredire nella direzione di un aumento tanto della sua complessità quanto del numero e del livello di sviluppo delle funzioni espletate[21].

 

Questo ambito di fenomeni va perciò analizzato congiuntamente agli agenti che consideriamo “fisici” giacché, sostiene Lamarck, «nella loro origine il fisico e il morale sono, senza dubbio, un’unica e stessa cosa»[22]. Purtroppo, il senso comune e il mondo della scienza difficilmente giungono a convincersi dell’essenziale intreccio di queste sfere della vita organica, soprattutto perché da esse si originano ordini di “effetti” che, a seconda delle specie animali, possono sembrare talora – e soprattutto nell’essere umano – così differenti da non avere nulla in comune[23].

 

4. Antropologia ed ecologismo

A dire il vero – precisa Lamarck, consapevole delle contemporanee indagini sui costumi delle popolazioni – un riconoscimento dell’influenza degli elementi fisici sul carattere e le tendenze dei viventi c’è stato; tuttavia, aggiunge, «mi sembra che non si sia ancora prestata sufficiente attenzione alle influenze del morale sul fisico». «Ora – prosegue – questi due ordini di cose, che hanno un’origine comune, agiscono l’uno sull’altro, soprattutto quando sembrano più separati, e oggi abbiamo la possibilità di dimostrare che si modificano reciprocamente»[24]. Ma per riuscire in questo intento e cogliere il profondo legame sussistente tra l’ambito fisico e quello morale è necessario seguire il percorso inverso a quello tradizionalmente imboccato dagli scienziati e dai filosofi: non è dall’essere umano che si deve partire, poiché il suo alto grado di complessità e la specializzazione delle sue facoltà inducono a presupporre un netto dualismo tra dimensioni[25], e d’altronde l’intera storia del pensiero occidentale offre chiara testimonianza di questa continua separazione, che ha di volta in volta insistito sulla distinzione nell’uomo di un corpo e un’anima, di una sostanza estesa e una psichica, di una realtà fisica e una spirituale[26].

Lamarck suggerisce dunque di «sforzarsi di conoscere l’organizzazione degli altri animali»; di «considerare le differenze che esistono tra essi a questo riguardo, e insieme i rapporti che intercorrono tra le facoltà che sono loro proprie e l’organizzazione di cui sono dotati»[27]. Partendo dalla valutazione degli organismi più semplici si rende possibile non solo scoprire quella evoluzione della natura che lega tra loro i viventi in un divenire progressivo e perpetuo, ma anche delineare le modalità in cui la dimensione interiore delle tendenze, degli atteggiamenti, degli usi e delle abitudini interagisce con il mondo esterno, nonché individuare le principali variazioni che vi si determinano. Mentre infatti gli organismi più elementari sono capaci esclusivamente di irritabilità, mano a mano che si procede nell’osservazione di quelli più complessi, la presenza di un numero maggiore di organi meglio diversificati e specializzati si accompagna anche a facoltà differenti[28]. La semplice irritabilità diviene bisogno, i bisogni portano a determinati sforzi e comportamenti e le loro modificazioni possono indurre nuove abitudini. Nei livelli di maggiore complessità organica il bisogno si accompagna alla capacità di provare sensazioni, più oltre alla coscienza e infine all’intelligenza. Ma qualunque sia il livello di articolazione delle attività operative (tendenze, sforzi, intenzioni ecc., fino alla comparsa della volontà caratteristica dell’essere umano), la dimensione morale svolge una fondamentale funzione di mediazione nel rapporto con le condizioni esterne, rendendo indiretta la loro influenza sull’organismo, contribuendo ad aumentare l’imprevedibilità delle forme di interazione con il fuori e introducendo spontaneità e innovazione nelle risposte alle molteplici sollecitazioni.

Nella direzione opposta, muovendo cioè dalle massime forme di complessità organica, si rende opportuno chiarire l’accostamento, per quanto cauto, tra l’essere umano e gli animali. Nella Philosophie zoologique, Lamarck definisce l’essere umano col termine di “bimane”, distinguendolo dai quadrumani per avere mani con pollice opponibile solo agli arti superiori. La delicata questione del possesso di facoltà psichiche speciali viene accantonata (e ripresa soltanto a conclusione della riflessione) con la restrizione delle osservazioni alla costituzione organica:

Se l’uomo non fosse distinto dagli animali altro che per la sua costituzione organica sarebbe facile mostrare che i caratteri dei quali ci si serve per farne, con le sue varietà, una famiglia a parte derivano tutti da antichi cambiamenti delle sue azioni e dalle nuove abitudini che ne ha contratto e sono divenute tipiche degli individui della sua specie[29].

 

I bimani umani non sono che individui di una tipologia animale derivata dai “quadrumani” a seguito dell’abitudine, mantenuta per generazioni, di tenersi in posizione eretta «mossi dal bisogno di dominare e di vedere insieme davanti e di fianco»[30]. Accanto a questa, un nutrito quantitativo di altre necessità e situazioni ha concorso nel tempo a fare sì che in un gruppo divenuto egemone potessero comparire particolari comportamenti, «modificazioni organiche e molte nuove facoltà» in modo da allontanarsi da altre popolazioni di quadrumani. Nell’ambito dei mammiferi, già a questi ultimi va riconosciuto che i loro organi hanno raggiunto «una conformazione che aumenta considerevolmente le loro capacità, permette una grande varietà di azioni, ed estende e fa anche predominare la loro intelligenza»[31]. Certamente, l’essere umano si trova a una notevole distanza dagli altri animali, eppure anche in questi va riconosciuta l’esistenza dell’organo dell’intelligenza, ancorché meno perfezionato o specializzato in determinate prestazioni connesse alle necessità della specie. Questa limitazione dipende dalle circostanze: finché infatti «la loro costituzione resta la stessa e la natura dei loro bisogni non cambia, in alcun modo [ciascuno di questi animali] può estendere la sua intelligenza né applicarla a oggetti diversi da quelli relativi ai suoi bisogni ordinari»[32]. Sono dunque le trasformazioni dell’insieme condizionante le diverse facoltà conoscitive e di risposta a definire le possibilità di sviluppo dell’intelligenza.

D’altro canto, l’organo del pensiero è tra tutti quello maggiormente soggetto all’influenza dell’esercizio; un organo plastico e versatile, in grado di diversificare e accrescere le proprie prestazioni. Raggiunta pertanto una posizione di dominio e aumentati in grande misura i loro bisogni in ragione anche della crescita della popolazione, che contestualmente si trasformava in bimane, gli individui «hanno parallelamente dovuto moltiplicare le loro idee e avvertito il bisogno di comunicarle ai propri simili»[33]. Così, lo sforzo principale dovette essere quello di diversificare adeguatamente i moltissimi segni utili alla trasmissione delle esigenze, e per comunicare rapidamente un numero sempre maggiore di idee l’articolazione di suoni avrà rappresentato una straordinaria trovata:

dapprima non ne avranno usato che un piccolo numero, congiuntamente a inflessioni della voce; poi li avranno moltiplicati, diversificati e perfezionati, secondo la crescita dei loro bisogni e l’intensità degli sforzi fatti per soddisfarli. L’uso abituale della gola, della lingua e delle labbra per articolare i suoni avrà eminentemente sviluppato quella facoltà. Da ciò, per questa particolare popolazione, l’origine della straordinaria facoltà di parlare[34].

 

Va da sé che l’origine e lo sviluppo del linguaggio corrono parallelamente – e anzi ne sono sia concausa sia concausati – all’origine e allo sviluppo di esigenze, richieste, pretese individuali e sociali sempre più complesse, ma soprattutto agli interventi e alle modificazioni dell’ambiente in cui dette popolazioni si stabiliscono. Le influenze intrecciate e reciproche tra soggetti organici e dimensione ambientale – teorizzate con grande difficoltà per l’intera gamma degli organismi viventi – divengono, nel caso dell’essere umano, più facilmente visibili. Quell’andamento “a spirale” che rende reciproca e progressiva la loro relazione si produce adesso in forma accelerata e tangibile attraverso risposte comportamentali affidate a facoltà (sviluppatesi e affinate durante una lunga evoluzione naturale e culturale) che si sono rese ampiamente indipendenti dal legame con la natura e dalla necessità di risolvere nell’immediato i bisogni umani, molti dei quali prodotti “artificialmente”.

Declassato ormai a membro di una delle molte specie terrestri appartenenti al regno animale, strettamente imparentato con lo scimpanzé e definitivamente deprivato del privilegio di culmine della creazione, l’essere umano rivela, agli occhi di Lamarck, un volto assai diverso da quello da molti celebrato. In una nota del suo Système analytique des connoissances positivs de l’homme, non viene rilevata una nobile tendenza alla cura della natura, ma al contrario la sprovvedutezza di un contegno stupidamente prepotente: a causa del suo egoismo e della sua sostanziale mancanza di accortezza, a causa della sua tendenza a impadronirsi di tutto ciò che è a sua disposizione; in una parola, a causa della sua noncuranza per l’avvenire e per i propri simili, l’uomo sembra lavorare all’annientamento dei suoi mezzi di sussistenza e alla distruzione della sua stessa specie. L’impatto del suo agire viene considerato sempre più significativo e devastante, capace di produrre cambiamenti straordinariamente nocivi e irreversibili all’ambiente, di arrecare danni alla Terra e di portare alla distruzione di altre specie:

Eliminando ovunque i grandi vegetali che proteggevano il suolo, per ricavarne oggetti che soddisfano la sua avidità del momento, egli conduce rapidamente alla sterilità il terreno che occupa, provoca il prosciugamento delle sorgenti, ne allontana gli animali che vi trovavano il proprio sostentamento e fa sì che estese regioni del globo, un tempo fertili e popolate, siano adesso nude, sterili, inabitabili e deserte. Dimenticando i consigli dell’esperienza per abbandonarsi alle proprie passioni, egli è perpetuamente in guerra coi suoi simili e li distrugge ovunque e con ogni pretesto; di modo che vediamo popolazioni, un tempo numerose, scemare sempre più. Si direbbe che, dopo aver reso il globo inabitabile, l’uomo si sia incamminato verso l’autodistruzione[35].

Le parole dure e dirette di Lamarck rivelano una sensibilità ecologista ante litteram, attraverso la quale si esprimono preoccupazioni e inquietudini che la storia dell’ultimo secolo non ha potuto che incrementare.


 

[1] Tra questi è senza dubbio Giulio Barsanti, che ha dedicato eccellenti lavori all’interpretazione del pensiero di Lamarck, rivelandone al meglio ricchezza e innovazione; recentemente ha inoltre riproposto la traduzione italiana della prima parte della Philosophie zoologique con l’aggiunta di alcune ulteriori pagine fondamentali per una corretta ricollocazione del naturalista francese nel panorama della storia dell’evoluzionismo: J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica e altri naturalia, a cura di G. Barsanti, Mimesis, Milano 2020.

[2] Questa espressione si ritrova ad esempio nel titolo del breve volume di R. Ianniciello (Lamarck non aveva tutti i torti. La teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti riveduta e corretta, Aracne, Roma 2020) e in quello del primo capitolo di un saggio di C. Bellieni e L. Velázquez (Il vero segreto dell’evoluzione. Dal conflitto alla collaborazione, Cantagalli, Siena 2022).

[3] Sulla figura di Lamarck e sugli elementi di continuità e discontinuità tra le posizioni di un primo e un secondo periodo, il lettore italiano veda almeno P. Omodeo, Introduzione a J.-B. Lamarck, Opere, UTET, Torino 1969, pp. 9-51; G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 24 ss. Per un inquadramento del lavoro di Lamarck nel contesto scientifico dell’epoca si veda P. Corsi, Oltre il mito. Lamarck e le scienze naturali del suo tempo, il Mulino, Bologna 1983.

[4] J.-B. Lamarck, Sulla specie (1803), in Id., Filosofia zoologica e altri naturali, cit., p. 84.

[5] Ibid., p. 87.

[6] Si veda ad esempio G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2002, pp. 151-152.

[7] J.-B. Lamarck, Prolusione del 1800. Discorso di apertura pronunciato il 21 fiorile dell’anno 8 (pubblicata nel 1801 nel suo Système des animaux sans vertebre), in Id., Filosofia zoologica e altri naturalia, cit., p. 71.

[8] Ibid., p. 72.

[9] J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica (1809), in Id., Filosofia zoologica e altri naturalia, cit., p. 208. Qui Lamarck si riferisce agli animali, ma la sua concezione riguarda l’intera natura organica.

[10] Ibid., p. 208.

[11] Ibid., p. 207.

[12] Ibid., p. 211.

[13] Ibid., p. 207.

[14] Si veda G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura, cit., p. 103.

[15] Perciò non sorprende che il principale rappresentante del pensiero positivistico francese, Auguste Comte, lo accusi di essere incapace di attenersi ai metodi strettamente deterministici del razionalismo dominante e si dichiari avverso alla sua prospettiva evoluzionistica: A. Comte, Cours de philosophie positive, Scheicher, Paris 1908, pp. 287 ss., in particolare pp. 296-297.

[16] A proposito del “plan de la nature” o “de la vie” si può vedere J.-P. Aron, Les circonstances et le plan de la nature chez Lamarck, in «Revue générale des sciences pures et appliquées et Bulletin de l'Association française pour l'avancement des sciences», 64, 1957, pp. 243-250, soprattutto le pp. 244-245.

[17] Il ricorso all’idea di un “Supremo Autore”, ad esempio in J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, cit., pp. 128-129, 133-134, 150, 156 ecc., ha scopo retorico. La sua autentica intenzione è «dimostrare che la natura effettivamente possiede gli strumenti e le facoltà che le sono necessari per produrre da sé ciò che noi ammiriamo in essa» (ibid., p. 134).

[18] Id., Prolusione 1800, cit., p 71; il testo è riproposto anche in altri testi, nella Prolusione del 1802 e nella Filosofia zoologica.

[19] A questo proposito, si veda G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura, cit., p. 135.

[20] Lamarck distingue tra animali “apatici” (capaci di semplice irritabilità), animali “sensibili” (dotati di un “sentimento interiore”) e infine animali “intelligenti” a seconda delle facoltà che evolutivamente hanno sviluppato (Id., Histoire naturelle des animaux sans vertèbres, Verdière, Paris 1815; si vedano in particolare le pp. 1-27).

[21] J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, cit., p. 100.

[22] Ibid. Questa affermazione di Lamarck non va intesa nel senso del riduzionismo materialista (ad esempio di La Mettrie); piuttosto, ricorda una posizione di genere emergentista.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] Ibid., pp. 100-101.

[26] Da questo punto di vista è possibile considerare Lamarck un pensatore antidualista.

[27] Ibid., p. 101.

[28] Lamarck, come ricordato nella nota 20, distingue tra animali dotati di facoltà progressivamente differenti (Id., Histoire naturelle des animaux sans vertèbres, Verdière, Paris 1815; si vedano in particolare le pp. 1-27). Sulla facoltà del sentire, si veda Filosofia zoologica, cit., p. 91.

[29] Ibid., p. 241.

[30] Ibid., p. 242.

[31] J.-B. Lamarck, Sull’uomo, in Id., Filosofia zoologica e altri naturalia, cit., p. 81.

[32] Ibid.

[33] J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, cit., p. 244.

[34] Ibid., p. 245.

[35] J.-B. Lamarck, Système analytique des connoissances positivs de l’homme, Baillière, Paris 1830, pp. 154-155 (nota); la traduzione qui riportata è di G. Barsanti e si trova nell’introduzione a J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica e altri naturalia, cit., p. 39.

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