S&F_scienzaefilosofia.it

Le basi filosofiche della dieta veg(etari)ana. La scelta alimentare come scelta etica

Autore


Matteo Andreozzi

Dottore di ricerca in filosofia


1. Etica, natura e questione alimentare
2. Lo status morale delle entità naturali non-umane
3. L’approccio utilitaristico di Peter Singer
4. L’approccio deontologico di Tom Regan
5. Oltre le prospettive morali antropomorfiche

↓ download pdf

S&F_n. 31_2024

Abstract


The philosophical foundations of the veg(etari)an diet. Food choices as ethical choices

Although recent decades have seen a substantial increase in talking about the moral value of nature, the discussion has not yet undermined the belief according to which we can use nature without restraint, as long as we respects other human beings. The food issue is a classic example: our very existence and survival within planet Earth implies a competition which implies our use and killing of other forms of life, not belonging to our moral community. However, is still really indisputable that only human beings, and no other non-human natural entities, are members of this community? The main aim of this paper is to explore the answers provided to this question by the best-known contemporary philosophers, who defend the need to adopt a vegetarian diet: Peter Singer and Tom Regan. The central assumption of both authors is that, even though there are undoubtedly differences between humans and other natural entities, the ethical principles that underlie relationships between human beings are based and justified on the possession of traits that are also possessed by a large part of the non-human animals. Thus, we do not have to overturn any of the assumptions of traditional ethic. In fact, we have to apply them correctly: if the ability to experience pleasure and pain and/or of being conscious have intrinsic value, as already widely supported by the Western moral tradition, then all the entities with sensitivity and/or cognition abilities have a moral status. Singer’s utilitarian ethics, however, focus on the sensitive analogies between humans and animals. Regan’s deontological ethics discuss cognitive analogies between all sentient beings. Both philosophers claim that the burden of ethically justify nutritional choices is not on veg(etari)ans, but on those whose eating habits produce the same quantity and quality of exploitation and death of non-human animals: habits that can no longer be defended by simply mentioning the pleasure (such as the good taste of meat) that some can derive from the slaughter of animals. The paper also explores critiques and alternative philosophical foundations for a less anthropomorphic, but still ethically bonding, veg(etari)anism. Contributions to debate offered by authors such as Midgley, Goopaster, Callicott, Taylor, Palmer, and Fox have indeed the merit to recognize the same moral value to different natural entities and still promote a more general veg(etarian) lifestyle which appears more aware of our being rooted in a nature made up of complex dynamic relationships whose energy flows are also food flows.

1. Etica, natura e questione alimentare

Se nell’antichità la natura è stata principalmente intesa come entità da venerare o temere, in quanto dotata di valore spirituale, o come entità da ammirare per il suo valore estetico, in epoca recente essa è stata generalmente vista come poco più che una risorsa, dotata di un semplice valore strumentale: un qualcosa di meramente “utile” a soddisfare i nostri bisogni. Per quanto negli ultimi decenni si sia iniziato a parlare (anche) del valore morale della natura, lo si è più spesso fatto parlando “solo” di responsabilità umana e, con ciò, di “semplici” doveri indiretti riguardanti il mondo naturale. Simili doveri non sono mai in realtà riferiti a pazienti morali diversi da quelli della tradizione antropocentrica occidentale: con essi ci rivolgiamo di fatto a noi stessi o all’umanità (presente o futura), usando la natura ancora una volta soltanto come strumento, e mai anche come fine[1]. Niente, in buona sostanza, in grado di dare risalto culturale e sociale al comunque esistente dibattito filosofico sulla possibile esistenza di confini non-umani in grado di fare vacillare l’apparente indiscutibilità della convinzione secondo cui ogni nostra forma di utilizzo della natura sarebbe lecita, fin tanto che rispetta gli altri esseri umani.

Eppure «la natura non è affatto», come scrive Martin Heidegger, «né quella senza vita né quella vivente – il palcoscenico e lo strato più basso sopra il quale l’essere umano è posto per compiervi le sue malefatte»[2]. Per quanto, come rileva Holmes Rolston III, è lecito affermare che, almeno in parte, «noi non siamo determinati dall’ambiente, […] perché abbiamo interessanti possibilità di scelta, le quali aumentano con lo sviluppo della civiltà», sappiamo oggi anche che siamo «inesorabilmente radicati in esso, in modo tanto sicuro quanto lo è il nostro essere mortali»[3]. Un simile reinserimento dell’essere umano in natura non implica però che i diversi modi con cui ci relazioniamo all’ambiente dovrebbero essere considerati tutti, allo stesso modo, senza biasimo, alla stregua del comportamento di qualsiasi altro soggetto naturale. Poiché la nostra distanza dalla natura è data dalla nostra libertà di pensiero e di azione – una libertà che noi abbiamo non nonostante, ma proprio in virtù del nostro essere tra i più complessi prodotti dell’ambiente – e poiché la nostra appartenenza al mondo naturale ci mantiene costitutivamente inseriti all’interno di un dinamico intreccio di relazioni biologiche ed ecosistemiche, noi abbiamo sempre il potere di scegliere di agire in accordo con la natura, ed è quando avvertiamo questa scelta anche come un dovere nei confronti dei suoi valori morali che iniziamo a rispettarla. Il vero problema, allora, è dimostrare che per quanto gli esseri umani si siano distanziati da una natura che, di per sé, è non-morale, essi non solo possono rispettarla, ma hanno anche il dovere di farlo. Secondo Montague Brown, infatti, rinunciare alla libertà di compiere un simile tipo di scelta o giudicare qualsiasi scelta senza alcun biasimo equivale a essere irragionevoli e, perciò, a rinunciare a essere liberi nel senso che maggiormente ci contraddistingue come esseri umani, «il senso necessario perché si diano azioni propriamente umane, quelle che comportano una risposta ai valori»[4].

La questione alimentare, in quanto punto di incontro imprescindibile tra umanità e natura, è in questo senso più che emblematica. Noi, in quanto organismi viventi, siamo costitutivamente inseriti in un groviglio di catene di flussi energetici, quali la catena alimentare, fondato sulla competizione e cooperazione tra diverse entità biologiche[5]. La nostra stessa esistenza e sopravvivenza all’interno del pianeta Terra implica infatti una competizione che per noi esseri umani si concretizza nell’utilizzo e, per scopi alimentari, persino nell’uccisione di altre forme di vita. La specie umana ha a lungo cacciato e raccolto organismi, quali animali, vegetali e funghi, che ora alleva e coltiva con il medesimo obiettivo: nutrirsene per sopravvivere. Per quanto sia dunque corretto affermare che è la struttura stessa del mondo naturale a “legittimare” il nostro avvalercene per fini umani, è tuttavia da ricordare che essa ci impone anche di cooperare con gli altri organismi. Fare appello alla nostra appartenenza alla natura, e alla competizione in essa intrinseca, per giustificare ogni nostra forma di suo utilizzo è quindi, se non scorretto, quantomeno insufficiente. Una seria riflessione sulle relazioni che intessiamo con il mondo biologico si rende necessaria per comprendere se, ed eventualmente come, l’etica possa regolare il limitarsi e influenzarsi reciprocamente delle forze che condizionano il nostro vivere inseriti nei flussi energetici naturali, e il primo di questi è proprio quello alimentare. Una prima domanda scomoda è in questo senso la seguente: in base a quale criterio è lecito sostenere che soltanto gli esseri umani, e non anche altre entità naturali non-umane, sono membri di una stessa comunità morale[6]?

 

2. Lo status morale delle entità naturali non-umane

Come svariati autori hanno in epoca recente fatto notare, se si definisce l’umano stabilendo una serie di proprietà o peculiarità molto restrittive, si possono includere nella comunità morale soltanto certi esseri umani. Se, invece, al fine di includere tra i pazienti morali anche i cosiddetti “casi marginali”[7], si accoglie il valore intrinseco di proprietà o peculiarità molto più vaste, questi stessi criteri non sono sufficientemente restrittivi per escludere dalla comunità morale molte altre entità non-umane. Si tratta dunque di interrogarsi su cosa abbia valore intrinseco e possa di conseguenza essere in grado di conferire uno status morale ad alcuni enti e non ad altri. Non occorre in questo senso stravolgere nessuno degli assunti dell’etica tradizionale, ma applicarli con rigore e senza preconcetti: se la capacità di provare piacere e dolore e/o quella di essere coscienti sono di valore intrinseco, come già largamente sostenuto dalla tradizione morale occidentale, allora tutte le entità che ne sono depositarie possiedono uno status morale. Contrariamente a quanto si è creduto per secoli, è ormai evidente che simili facoltà non sono in possesso soltanto degli esseri umani: noi le possediamo, anzi, solo in quanto animali senzienti. Ciò, nelle parole Bernard Rollin, implica che siamo logicamente, empiricamente e anche eticamente tenuti ad ammettere che tutti i soggetti senzienti sono, a tutti gli effetti, pazienti morali:

Gli animali non sono semplici mezzi o strumenti per l’utilizzo umano, ma hanno un valore in loro stessi, indipendentemente da quanta utilità essi hanno o non hanno per noi, [e ciò significa che] gli animali, come le altre persone, […] sono dei fini in sé, non dei semplici strumenti per i fini umani.[8]

Se per la tradizione antropocentrica appare del tutto lecito utilizzare e uccidere simili animali per il nostro vantaggio, nell’ammettere che essi sono «forme di vita intelligenti e sensibili», ricorda James Rachels, «questi stessi modi di trattarli potrebbero sembrarci persino mostruosi»[9]. Che dire, però, della nostra abitudine a nutrirci di essi? Jeremy Bentham, uno dei primi e più famosi filosofi a proporre un’impostazione etica fondata su un criterio capace di includere tutti gli animali dotati di soggettività all’interno di una medesima comunità morale, si oppose fortemente alla sofferenza inflitta nei confronti di tutti i soggetti senzienti. Ciononostante, non mise mai in discussione il nostro diritto di utilizzare e uccidere gli animali non-umani per scopi alimentari, quando ciò avviene senza inutili torture:

Se tutto stesse nell’essere mangiati, esiste una buona ragione per cui si dovrebbe tollerare che mangiamo gli animali che vogliamo: per noi è la cosa migliore, e per loro non è mai la peggiore. Essi non possiedono nessuna di quelle capacità di prolungata anticipazione della disgrazia futura che abbiamo noi. La morte che ricevono da noi comunemente è, e può essere sempre, una morte più veloce, e per questo meno dolorosa, di quella che li aspetterebbe nell’inevitabile corso della natura.[10]

A proseguire, quantomeno idealmente, il discorso avviato da Bentham sono stati in particolare due autori che, in epoca più recente, sono tuttavia pervenuti a prescrizioni alimentari almeno in parte divergenti da quelle del filosofo britannico: Peter Singer e Tom Regan. L’assunto centrale di entrambi gli autori è che, anche se esistono indubbie differenze tra gli umani e gli altri enti naturali, i principi etici che stanno alla base dei rapporti tra esseri umani si fondano e si giustificano sul possesso di caratteristiche proprie anche di una larga parte del regno animale non-umano. L’etica di Singer è tuttavia sensiocentrica: essa, proseguendo il discorso utilitaristico già avviato da Bentham, si concentra sulle analogie sensitive tra umani e animali dotati di soggettività. L’etica di Regan è invece psicocentrica: essa, adottando un’impostazione deontologica, si concentra sulle analogie cognitive che accomunano tutti i soggetti senzienti. La presenza di tali peculiarità in tutti gli animali dotati di soggettività implica, per gli autori, la necessità di ammettere che se un animale non-umano può provare esperienze così simili a quelle umane è necessario estendere anche a questo soggetto senziente quantomeno la “regola aurea” secondo cui “non si devono trattare gli altri come non vorremmo essere trattati noi stessi”.

 

3. L’approccio utilitaristico di Peter Singer

Legittimare la morte di una persona resta però per Singer molto diverso da fare altrettanto con un animale non-umano. L’uccisione di un essere umano determinerebbe infatti l’annullamento e la soppressione degli ulteriori valori che egli stesso ha attribuito alla propria vita, ai progetti da egli realizzati o a quelli pianificati per il futuro: tutti elementi da conteggiare in un calcolo utilitaristico in quanto facenti parte del suo stesso benessere[11]. Dal punto di vista alimentare, uccidere invece certi animali non-umani che, sebbene coscienti, sono stati allevati senza sofferenze inutili e in condizioni dignitose e rispettose, non trova a prima vista nell’utilitarismo di Singer obiezioni insuperabili[12]. Ciò è vero soprattutto se a fare da contraltare vi sono forti preferenze di persone nei confronti di piaceri strettamente connessi all’utilizzo e all’uccisione di simili animali. In netta opposizione al trattamento riservato soprattutto dall’industria medica e alimentare nei confronti di certi animali non-umani, la teoria morale di Singer non è dunque in grado di escludere in modo assoluto la possibilità di utilizzare e uccidere certi soggetti senzienti per fini umani. La sofferenza è senz’altro un male e va sempre evitata, a prescindere dalla specie. Tanto l’utilizzare umanamente quanto l’uccidere in modo indolore forme di vita non-cosciente o cosciente (siano esse umane o non-umane) potrebbero però essere lecitamente compresi in un calcolo utilitaristico che accorda preferenza al benessere di altre forme di vita autocosciente. Se è pressoché impossibile utilizzare o uccidere una persona autocosciente, perché essa possiede desideri, tra cui vi sono certamente quello di essere libera e quello di continuare a vivere, le forme di vita non-coscienti e coscienti mancano di simili desideri, perché non hanno alcuna consapevolezza di essere in vita. Il loro utilizzo o la loro uccisione, quando privi di dolore, sarebbero del tutto possibili all’interno della teoria di Singer: nessun loro desiderio verrebbe infatti frustrato.

Per l’utilitarismo, tuttavia, non si ha soltanto il dovere di evitare ogni possibile diminuzione dei valori (come quella che sarebbe causata da un aumento della sofferenza), ma anche quello di massimizzarli. L’utilizzo e l’uccisione di animali non-umani non-autocoscienti richiede allora come condizione necessaria che essi, nel primo caso, vivano una vita migliore di quella che altrimenti condurrebbero in natura e, nel secondo caso, vengano rimpiazzati da altri simili animali che non avrebbero altrimenti modo di essere in vita o di vivere altrettanto felicemente. La scelta alimentare più in linea con il pensiero dell’autore sembra dunque essere quella dei cosiddetti “onnivori coscienziosi”[13]. Chi si definisce tale di solito si nutre di sostanze di origine animale solo se ciò, oltre a non comportare conseguenze ecologicamente inaccettabili, implica che gli animali utilizzati abbiano vissuto una vita sufficientemente felice e siano morti senza provare eccessivo dolore. Altri selezionano le specie di animali non-umani che è secondo loro possibile utilizzare e uccidere per scopi nutritivi in funzione del grado con cui gli esemplari di queste stesse specie sono capaci di provare piacere e dolore. Una simile posizione è dallo stesso Singer ritenuta un certamente lodevole passo avanti rispetto a chi non mostra nessun tipo di preoccupazione morale per gli animali non-umani. Ciononostante, egli ritiene preferibile l’adozione di un veg(etari)anismo[14] quantomeno prudenziale:

In ogni caso, sul piano dei principi morali pratici, sarebbe meglio rigettare in toto l’uccisione degli animali per motivi legati all’alimentazione, almeno quando ciò non si rende necessario per la nostra stessa sopravvivenza. L’uccidere gli animali per cibarsene ci porta a concepire questi come degli oggetti che noi possiamo usare a nostro piacimento. […] Come potremmo incoraggiare le persone a rispettare gli animali e a dare un’eguale considerazione ai loro interessi se esse continuano a mangiarli per il loro mero piacere personale?[15]

All’atto pratico, secondo l’autore, si tratta semplicemente di uscire da un’abitudine che, dal punto di vista dietetico, si riduce essenzialmente a un’assuefazione al gusto[16]. L’onere di motivare dal punto di vista morale la propria condotta nel rapporto con gli animali non-umani senzienti non ricade mai, secondo Singer, sul veg(etari)ano, ma su chi continua a perpetuare con le proprie abitudini la medesima quantità e qualità di sfruttamento e morte del mondo animale non-umano. Come rileva Luisella Battaglia, poiché la riduzione delle sofferenze e delle morti inflitte agli animali non-umani è un bene, e poiché la scelta veg(etari)ana contribuisce a realizzare questo obiettivo, anch’essa risulta essere un bene[17].

Diventare vegetariano non è meramente un gesto simbolico. Non è neanche il tentativo di isolarsi dalle sgradevoli realtà del mondo, di mantenersi puro e senza responsabilità per la crudeltà e la carneficina che ci circondano. Diventare vegetariano è il passo più concreto ed efficace che si può compiere per porre fine tanto all’inflizione di sofferenze agli animali non umani quanto alla loro uccisione.[18]

Pur effettuando delle distinzioni tra il valore intrinseco posseduto dalle diverse tipologie di soggetti senzienti e legittimando, di conseguenza, alcune forme di utilizzo e di uccisione dei pazienti morali non-umani, l’etica di Singer è, anche in virtù della sua prudenza, ancora oggi considerata tra le più solide teorie morali non-antropocentriche tra quelle in grado di offrire supporto teorico a una scelta alimentare veg(etari)ana, se non altro favorevole a un processo di cambiamenti graduali.

 

4. L’approccio deontologico di Tom Regan

La condanna alle forme di utilizzo e uccisione dei soggetti senzienti proposta dall’etica dei diritti animali di Tom Regan è ancora più radicale di quella di Singer[19]. Pur rimanendo intenzionato a tutelare il benessere di tutti gli animali non-umani dotati di soggettività, l’autore elabora un’etica deontologica che mira a criticare il sistema culturale che ci legittima a concepire questi come “risorse” a nostra completa disposizione. La sua proposta è in questo senso di fondare i nostri doveri diretti sui diritti morali fondamentali, quali il diritto a non soffrire, a vivere e (almeno sotto certi aspetti) alla libertà, che ogni essere dotato di status morale possiede. Su quali ragionevoli basi è però possibile attribuire un simile status? L’autore propone di distinguere due diverse tipologie di pazienti morali[20].

Gli individui coscienti e senzienti, capaci soltanto di provare piacere e dolore, quali i casi marginali così menomati da non avere alcun istante di lucidità o gli animali cosiddetti “inferiori”, hanno certamente una sorta di rilevanza etica, ma non sono titolari di diritti: vige nei loro confronti il dovere generale di essere benevoli e di non causare sofferenza[21]. A essere dotati di un vero e proprio status morale sono invece quegli animali senzienti in possesso anche di ulteriori capacità di ordine cognitivo e volitivo[22]. Rientrano in questa categoria, oltre agli esseri umani in generale, anche molti casi marginali in possesso di un certo livello di queste doti (es. neonati, bambini piccoli e certi soggetti menomati) e persino molti animali non-umani[23]. Tra questi vi sono indubbiamente tutti i mammiferi non-umani normalmente sviluppati di età uguale o superiore a un anno ma anche gli uccelli e forse persino i pesci[24].

Semplicemente non sappiamo abbastanza per giustificare il rifiuto, senza alcun impegno a rifletterci ulteriormente, l’idea che una rana, ad esempio, sia un soggetto di una vita pieno di desideri, obiettivi, credenze, intenzione e cose simili. Quando la nostra ignoranza è così ampia, e il possibile prezzo morale così grande, non è irragionevole dare a questi animali il beneficio del dubbio, trattandoli come se fossero soggetti a cui noi dobbiamo un trattamento rispettoso, specialmente quando fare ciò non causa a noi alcun danno.[25]

Regan, a dire il vero, non esclude a priori che persino entità quali i molluschi, le ostriche, gli alberi o i fiori possano essere dotati di status morale[26]. Egli difende infatti la necessità di sviluppare un’etica in grado di riconoscere uno status morale a diversi enti naturali, ma dichiara di non volersi addentrare in questo tema in quanto è «straordinariamente difficile» fornire dimostrazioni valide a riguardo[27].

Ad accumunare tutti i pazienti morali appartenenti alla seconda tipologia identificata da Regan, e che rende questi l’oggetto principale della teoria morale del filosofo, è dunque il possesso o (forse) il potenziale possesso (es. embrioni o generazioni future) di un rudimentale apparato cognitivo. Ciò, per l’autore, non significa soltanto essere dotati di percezione, memoria, desideri, credenze, autocoscienza, intenzione, senso del futuro, emozione e sensibilità. Significa anche e soprattutto disporre di autonomia nel perseguire il proprio benessere: un benessere dato da credenze e desideri (connessi ai propri bisogni biologici, psicologici e sociali) ostacolare i quali è sbagliato in quanto causa di frustrazione[28]. Visto che non abbiamo motivo di pensare che gli esseri umani (compresi molti casi marginali) e tutti gli animali non-umani senzienti siano privi di tali peculiarità, siamo per l’autore costretti ad ammettere che sono entrambi dotati di uno status morale: tutti gli argomenti utilizzabili per confutare questa constatazione conducono infatti a negare i diritti morali anche ad alcuni esseri umani. Ecco perché, per Regan, l’etica dei diritti animali è parte integrante e complementare, e non antagonista, di ogni etica a favore dei diritti umani: intendere correttamente concetti quali “animale” e “uguaglianza” significa ammettere che «tutti gli animali sono uguali»[29].

Ciò non significa, tuttavia, che di fronte alla necessità di rispettare tutti i soggetti senzienti sia impossibile stabilire della priorità: tutelare i loro diritti significa infatti spesso violarne il minor numero possibile e farlo nel minor modo possibile, minimizzando così le violazioni[30]. Nel primo caso:

Se non entrano in gioco considerazioni speciali, allora per manifestare uguale rispetto per gli uguali diritti degli individui in questione occorre calpestare il diritto di A (il diritto di pochi) anziché quelli di B, C e D (ossia i diritti di molti). In questo caso, scegliere di violare i diritti di molti significherebbe violare un diritto uguale per ben tre volte (cioè una volta per ciascuno dei tre individui in questione) quando invece avremmo potuto scegliere di violarlo una volta sola, e ciò significherebbe non essere coerenti con il principio che ci chiede di manifestare uguale rispetto per gli uguali diritti di tutti gli individui in questione.[31]

 

Nel secondo, invece, «nessuna persona ragionevole negherebbe che la morte» di un essere umano «costituirebbe una perdita prima facie maggiore, e quindi un danno prima facie più grave» della perdita e del danno che potrebbero derivare dalla morte di una mucca, una gallina o un maiale[32]. Questo non perché questi animali siano dotati di meno valore rispetto a un essere umano, ma perché un danno come la morte è tanto più grande quanto più sono le opportunità di perseguire i propri interessi che vengono precluse al soggetto senziente ucciso.

Particolarmente interessanti sono proprio le implicazioni pratiche di simili presupposti, in primis quelle alimentari[33]. Adottando il criterio di demarcazione morale proposto da Regan sono infatti moralmente intollerabili tutte le pratiche implicanti l’utilizzo dei soggetti dotati di uno status morale come semplici mezzi. Poiché risultano in questo senso da condannare molti dei modi con cui l’essere umano si rapporta agli animali non-umani dotati di soggettività, niente di ciò che non conduce a una totale soppressione dell’utilizzo di essi come risorse alimentari, scientifiche, industriali o di diletto è dunque per il filosofo eticamente accettabile. È in questo senso che anche egli suggerisce di adottare uno stile di vita veg(etari)ano[34].

È il non vegetariano che deve dimostrarci come giustifica il suo mangiar carne sapendo che è stato necessario uccidere un animale perché egli possa farlo; è il non vegetariano che deve fornirci la prova che il suo modo di vita non contribuisce in modo sostanziale a delle pratiche che ignorano sistematicamente il diritto alla vita degli animali. Ed il non-vegetariano deve fare tutto questo nella piena consapevolezza di non poter difendere il suo modo di vita con la semplice elencazione di tutti i beni intrinseci (come il buon sapore della carne) che derivano dal massacro degli animali.[35]

Lo stesso discorso, posto da Regan sul piano alimentare è poi da egli allargato anche a tutti gli altri settori utilizzanti gli animali non-umani come semplici mezzi[36]. È chi effettua esperimenti su questi animali, chi li cattura a fini commerciali o chi li caccia per sport a dovere giustificare le proprie azioni, e la curiosità scientifica, il profitto o il piacere del diletto non sono per l’autore argomenti sufficienti a difendere queste scelte.

Abbracciare uno stile di vita veg(etari)ano diventa dunque per il filosofo una scelta etica ineludibile. Secondo l’autore, infatti, tutti gli animali senzienti sono dotati di veri e propri diritti che abbiamo il dovere di rispettare. L’industria alimentare connessa alla produzione di carne, pesce e loro derivati, viola però per sua stessa natura questi stessi diritti. Consumare i prodotti provenienti da tali cicli produttivi implica il sostegno economico ed etico di pratiche che sono dunque moralmente ingiuste. Occorre ridurre la domanda di prodotti connessi allo sfruttamento animale e contribuire a diminuire la sofferenza e l’uccisione di esseri senzienti.

È per questo che, secondo la teoria dei diritti, il vegetarianismo è moralmente obbligatorio; ed è per questo che non dobbiamo ritenerci soddisfatti di alcun risultato che non sia la fine completa dell’allevamento – non necessariamente intensivo – a scopo commerciale degli animali così come lo conosciamo.[37]

 

5. Oltre le prospettive morali antropomorfiche

Singer e Regan incoraggiano l’adozione di un’alimentazione veg(etari)ana elaborando argomenti fondati su certe analogie esistenti tra gli esseri umani e buona parte del regno animale e sulla conseguente responsabilità morale di rispettare tutti i soggetti senzienti, a prescindere dalla loro specie. Un simile approccio non mira dunque a stravolgere i fondamenti dell’etica tradizionale, ma a dimostrare che la comunità morale è in realtà da sempre una comunità di soggetti senzienti, solo per errata convinzione (o desueta convenzione) ristretta all’umanità. Per Singer non vi sono elementi sufficienti per riservare la stessa considerazione morale a tutte le entità naturali, perché alcune di queste sono prive della capacità di provare piacere e dolore. Non si pone di conseguenza alcun problema o ulteriore restrizione in riferimento a una dieta che, pur escludendo i cibi di origine animale, include l’assunzione di forme di vita quali vegetali e funghi. Sebbene per Regan l’attribuzione di valore morale a enti naturali non senzienti sia teoricamente possibile, le difficoltà teoriche di una simile posizione e le implicazioni pratiche che essa avrebbe, soprattutto dal punto di vista alimentare, sarebbero per sua stessa ammissione quasi insormontabili.

Nel loro lasciare inalterato il primato ontologico di tutti gli esseri dotati di una soggettività simile a quella umana, tanto Singer quanto Regan articolano tuttavia le proprie teorie a partire dall’assunzione di una prospettiva morale definita proprio per questo “antropomorfica”[38], la quale è stata nel corso degli anni oggetto di svariate critiche. Ad accumunare il pensiero dei due autori è infatti il tentativo di assimilare le alterità non-umane alla sfera umana in virtù di alcune analogie che, in base a una sorta di “antropomorfismo etico”, parrebbero sufficienti a giustificare il loro ingresso all’interno della nostra stessa comunità morale. Ciononostante, un simile atteggiamento ha nel corso degli anni non soltanto prodotto esiti filosoficamente deboli o persino incoerenti, ma anche promosso comportamenti non sempre praticabili, se non anche contradditori, che si rendono particolarmente evidenti proprio sul piano alimentare. Tutto ciò, nelle parole degli stessi critici, non implica tuttavia la scarsa tenuta filosofica delle tesi in difesa di una scelta alimentare come quella veg(etari)ana, ma apre anzi a una pluralità di prospettive morali e di argomenti etici in grado di supportarla e, in fin dei conti, persino rafforzarla.

Sono due, in particolare, gli aspetti problematici del pensiero antropomorfico che meritano di essere approfonditi, per meglio comprendere come le critiche a esso mosse abbiano di fatto condotto a un ulteriore consolidamento delle basi filosofiche in difesa del veg(etari)anismo. Il primo, bene evidenziato da Mary Midgley[39], è che se ci si accosta “antropomorficamente” alle alterità non-umane, cercando di avvicinarle ontologicamente a noi, mediante una riqualificazione filosofica delle loro diversità e analogie con gli esseri umani, non si fa altro che opporre alla loro reificazione un processo di umanizzazione che non conferisce nuovi valori al mondo non-umano, ma si accontenta di concedere a esso la parziale condivisione di alcuni dei nostri. Il vero problema del preconcettuale primato della sensibilità e della cognitività tipico delle morali antropomorfiche, spiega Kenneth Goodpaster, è che esso dà eccessiva rilevanza morale a delle percezioni di stimoli elettrici, le quali rappresentano soltanto indicatori derivati dall’evoluzione in base a cui si sono selezionati segnali positivi in concomitanza a condizioni soddisfacenti sul piano adattativo e negativi in associazione a condizioni insoddisfacenti[40]. In riferimento alle capacità sensitive, il piacere è per l’autore come un applauso che accompagna un lavoro ben fatto, non lo stesso essere ben fatto del lavoro; mentre il dolore permette di anticipare ciò che sarebbe un male rilevante, ma non è ciò che rende rilevante il male[41]. Nelle parole di John Baird Callicott:

L’idea che il dolore è male, e deve essere minimizzato o eliminato, è una nozione talmente primitiva, che potremmo paragonarla al comportamento del tiranno che fa uccidere i messaggeri che gli recano cattive notizie, supponendo così di incrementare il suo benessere e la sua sicurezza.[42]

Relativamente alle doti cognitive invece, Goodpaster ricorda che l’essere consapevoli del proprio bene non aggiunge niente di eticamente rilevante al bene stesso[43]. Esistono numerosi interessi (anche umani) che reputiamo sia necessario rispettare a prescindere da quanto i pazienti morali coinvolti siano di essi coscienti o a essi cognitivamente favorevoli. Sostenere che il valore morale di una certa entità dipenda esclusivamente dal suo essere consapevole di avere interessi potrebbe anzi condurre a rispettare soltanto gli interessi di cui essa è cosciente. In questo senso sarebbe da ritenersi ad esempio giusto aiutare un autolesionista intenzionato a farsi del male e ingiusto fermarlo. Se simili comportamenti sono solitamente considerati in modo opposto è proprio in virtù dell’esistenza di un bene di queste entità che non ha nulla a che fare con i loro stati mentali. Tali considerazioni hanno aperto la strada all’affermarsi di diverse altre prospettive filosofiche che, rifiutandosi di attribuire status morale a certe alterità non-umane su basi esclusivamente antropomorfiche, si sono tuttavia interrogate ulteriormente sui valori morali del mondo naturale e sull’essenza stessa del valore intrinseco, offrendo numerosi argomenti in difesa dello stile di vita veg(etari)ano.

Tra queste, quella biocentrica, nel proprio subordinare il valore della sensibilità e della cognitività al valore intrinseco della vita stessa dei pazienti morali, ben si presta a inquadrare il secondo dei problemi sopra citati. Pur prendendo esplicitamente posizione a favore di un’alimentazione veg(etari)ana, Paul Taylor sostiene infatti che una simile scelta alimentare non soltanto non è giustificata sulla sola base del fatto che gli animali non-umani provano esperienze simili alle nostre, ma non è nemmeno universalmente applicabile e men che meno riconducibile a un unico principio astratto, privo di contraddizioni[44]. Da un lato, infatti, la capacità di provare piacere e dolore non aggiunge niente di eticamente rilevante, secondo l’autore, allo status morale che la prospettiva biocentrica ci impone di attribuire alle singole forme di vita. Dall’altro, se identificare criteri assiologici, epistemologici e ontologici è di fondamentale importanza per ogni etica e se per farlo è indispensabile decontestualizzare ogni considerazione morale, qualsiasi principio etico trova il suo definitivo banco di prova nei singoli contesti normativi in cui deve di fatto essere applicato: se risulta incapace di guidare la nostra azione nel mondo reale, esso deve necessariamente essere rivisitato.  In alcune circostanze, come quelle legate ad allergie o intolleranze alimentari, e per alcune popolazioni, come quelle viventi in regioni artiche o particolarmente montuose, è tuttavia indispensabile nutrirsi di animali non-umani o derivati di loro origine. Sebbene gli esseri umani e gli altri animali abbiano il medesimo valore morale, è del tutto legittimo che in questi casi si uccidano forme di vita senzienti non-umane per nutrirsi di esse: se così non fosse, infatti, si riconoscerebbe loro un valore superiore al nostro. Ciò che è stato in grado di evidenziare questa prospettiva, dunque, è che l’ingiustizia prodotta dal nutrirsi di vegetali e funghi è la medesima di quella arrecata dal nutrirsi di animali non-umani. Da un lato non è corretto seguire una dieta veg(etari)ana argomentando a favore della propria scelta sostenendo che, così facendo, si causa meno sofferenza, perché come si è detto si cadrebbe in una nuova reificazione antropomorfica del mondo naturale. Dall’altro, però, non è nemmeno giusto astrarre e universalizzare il veg(etari)anismo a principio morale, perché diverrebbe impossibile formulare prescrizioni che non conducano a contraddizioni fattuali.

Ciò che sembra essersi reso evidente da queste critiche è che stabilire cosa debba essere preso in considerazione nei riguardi dei pazienti morali e quanta considerazione sia opportuno riconoscere a questo “qualcosa”, è certamente indispensabile per identificare i principi e le norme di una vera etica interspecifica, ma anche insufficiente a promuoverla e difenderla senza contraddizioni. Secondo Clare Palmer, per risolvere questo problema occorre sviluppare diverse teorie dei contesti che, nel loro essere meno astratte e rigide, si affianchino ai paradigmi sensiocentrici, psicocentrici o biocentrici, rendendo i loro principi flessibilmente applicabili a seconda dei tipi relazione in atto[45]. Negare la superiorità ontologica ed etica dell’essere umano non implica dunque per l’autrice necessariamente negare anche la possibilità di stabilire delle priorità moralmente significative, relative ai diversi status morali. In questo senso, da una prospettiva come quella biocentrica, il valore intrinseco della vita di un essere umano e di quella di un’altra qualsiasi entità naturale non-umana resta sempre il medesimo. A determinare diverse risposte etiche sono i contesti relazionali in cui ci troviamo: sono essi infatti a determinare, sia cosa dobbiamo prendere in considerazione nei loro differenti riguardi, sia quanta considerazione dobbiamo loro rivolgere. Manifestazioni quantomeno elementari di una sorta di rivalità tra specie, precisa Midgley, sono del tutto naturali e osservabili in svariati contesti e tra numerosi organismi viventi: l’importante, quando si parla di umanità, è che tale rivalità, intrinseca al nostro essere radicati nel mondo naturale come tutte le altre forme di vita, non si trasformi in una forma di discriminazione culturale sistematica[46].

Come sostiene Callicott, sebbene l’imparzialità sia un’indubbia qualità dei giudizi giuridici, questa non rappresenta sempre anche una virtù nei giudizi morali: in ambito etico essa necessita di essere sempre temperata da una «appropriata parzialità», adeguatamente condizionata[47]. Tale condizionamento, prosegue idealmente Warwick Fox, è determinato tanto da un’«asimmetria epistemologica» quanto da un’«asimmetria motivazionale» tra agente e paziente morale, di cui è necessario tenere conto[48]. Anche se siamo disposti ad ammettere l’esistenza di interessi non-umani dotati di valore intrinseco, siamo senza dubbio maggiormente consapevoli dei (e mossi ad agire dai) nostri stessi interessi, nonché maggiormente capaci di (e inclini a) comprendere gli interessi di quegli animali a noi affettivamente o, quantomeno, ontologicamente più vicini. Ciò è valido anche all’interno dell’etica tradizionale, dove infatti, sebbene sia indubbio che tutti gli esseri umani possiedano lo stesso valore intrinseco, è del tutto lecito stabilire un modello differenziato dei nostri obblighi verso noi stessi, familiari, amici, conoscenti o soggetti a noi sconosciuti, capace di dare conto di differenti contesti relazionali.

Le problematiche sopra discusse e le diverse soluzioni proposte sembrano tuttavia rendere le basi filosofiche in difesa dell’adozione di uno stile di alimentare veg(etari)ano ancora più solide di quanto non fossero in precedenza. Pur negando la promozione del veg(etari)anismo a principio morale, la riflessione critica conferma l’esigenza di superare il primato antropocentrico (e auspicabilmente anche antropomorfico) dell’essere umano, non tanto in direzione dell’uguaglianza di tutte le forme di vita, quanto in quella di un’eguale considerazione dei loro interessi comunque già auspicata da Singer[49]. La pluralità di prospettive (sensiocentriche, psicocentriche o biocentriche) esistenti su tali interessi non è in questo senso di ostacolo, ma anzi di aiuto nel comprendere nel modo più esaustivo possibile verso cosa dirigere la nostra attenzione e quanta considerazione darle, all’interno dei diversi contesti relazionali in cui siamo inseriti. Sul piano alimentare, la considerazione di contesti, appropriate forme di parzialità e asimmetrie epistemologiche e motivazionali, anche nel riconoscimento del medesimo valore intrinseco di ogni forma di vita, non rende dunque contraddittorio il preferire nutrirsi di vegetali e funghi, rispetto ad animali non-umani. Poiché però è anche vero che la rivalità intrinseca al mondo naturale non sempre ci consente di esimerci dall’avere la meglio nella competizione con altri organismi viventi, diviene importante parlare di uno stile di vita veg(etari)ano in grado di essere non solo flessibile, ma anche in grado di prevedere forme di comportamento in grado di compensare i danni da noi eventualmente arrecati, mediante forme di cooperazione tra umanità e natura. Taylor in questo senso precisa che, nel rispetto di questa prospettiva, tutte le moderne società industrializzate hanno dei doveri verso il mondo naturale[50]. Tutti abbiamo beneficiato e beneficiamo, chi più chi meno, di uno standard di vita il cui livello si fonda sull’utilizzo del mondo naturale e delle altre forme di vita. Tutti dovremmo quindi condividere il costo di tutelare, preservare e conservare la natura per il bene dei singoli organismi che vivono su questo pianeta. Questa, precisa l’autore, è anzi una condizione indispensabile affinché si possa veramente dire di rispettare la natura.


[1] Cfr. J. A. Passmore, La nostra responsabilità per la natura (1974), trad. it. M. D’Alessandro, Feltrinelli, Milano 1986; M. Sagoff, The Economy of the Earth: Philosophy, Law, and the Environment, Cambridge University Press, New York 1988; H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), trad. it. P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 2002.

[2] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine (1929), trad. it. C. C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1999, p. 232.

[3] Cfr. H. Rolston III, Possiamo e dobbiamo seguire la natura? (1979), trad. it. M. Pietra e S. Dellavalle, in S. Dellavalle (a cura di), L’urgenza ecologica. Percorso di lettura attraverso le proposte dell’etica ambientalista, Baldini Castoldi, Milano 1998, pp. 127-161, qui p. 155.

[4] Cfr. M. Brown, Il diritto naturale e l’ambiente (1990), trad. it. A. Maccarini, in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 293-311, qui pp. 304-306.

[5] A. Leopold, L’etica della terra (1949), trad. it. A. Maccarini, in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp 131-141, qui pp. 136-137.

[6] D. Jamieson, Ethics and the Environment, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 104-105.

[7] Esseri umani non-paradigmatici, come neonati, certi soggetti diversamente abili, comatosi e, in generale, tutti i soggetti temporaneamente o definitivamente privi, o comunque non in pieno possesso, degli attributi che sono soliti caratterizzare lo status di persona.

[8] B. Rollin, The Teaching of Responsibility, Universities Federation for Animal Welfare, Potters Bar 1983, p. 17, traduzione mia.

[9] J. Rachels, Created from Animals: The Moral Implications of Darwinism (1990), Oxford University Press, Oxford 1991, p. 121, traduzione mia.

[10] Cfr. J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1791), trad. it. S. Di Pietro, Utet, Torino 1998, p. 421.

[11] Cfr. P. Singer, Rethinking Life and Death: the Collapse of Our Traditional Ethics, Text Publishing, Melbourne 1994 e P. Singer, Is the Sanctity of Life Ethics Terminally Ill?, in «Bioethics», Vol. 9, n° 3, 1995, pp. 327-343.

[12] Cfr. P. Singer, Utilitarismo e vegetarianesimo (1980), in L. Battaglia (a cura di), Etica e animali, Liguori, Napoli 1998, pp. 253-268.

[13] Cfr. P. Singer, J. Mason, The Way We Eat: Why our Food Choices Matter, Rodale, New York 2006, M. Pollan, The Omnivore’s Dilemma: A Natural Hisotry of Four Meals, Penguin, New York 2006.

[14] Con l’espressione “veg(etari)anismo” intendo volutamente rendere poroso il confine che separa lo stile di vita vegetariano da quello più comunemente detto vegano o vegan. Non a caso quando, all’interno della letteratura di settore, si parla di vegetarianismo si fa in realtà spesso riferimento a uno stile di vita che, all’atto pratico, coincide con il veganismo. Ciò che mi interessa sottolineare in modo particolare, infatti, è che nessuna delle due posizioni, per quanto rigorosa, ostacola le eventuali esigenze particolari di alcuni soggetti che per allergie, intolleranze o quant’altro, sono tenuti a fare delle eccezioni alla linea di condotta generale della posizione da essi stessi difesa. Con il termine “veg(etari)ano” mi riferisco qui dunque, in generale, a una netta presa di posizione etica in base alla quale si rifiuta l’utilizzo di prodotti alimentari, tessili, medici e cosmetici che sono di diretta origine animale (ciò che viene più comunemente rifiutato dal vegetarianismo), che sono stati testati sugli animali non-umani o che sono derivati dal loro sfruttamento (ciò che, in aggiunta a quanto viene rifiutato dal vegetarianismo, viene invece ripudiato dal veganismo).

[15] P. Singer, Practical Ethics. 2nd Edition (1979), Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 134, traduzione mia.

[16] Cfr. P. Singer, Tutti gli animali sono uguali (1976), trad. it. S. Castignone, in S. Castignone (a cura di), I diritti degli animali: prospettive bioetiche e giuridiche, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 129-144, qui pp. 135-137.

[17] Cfr. L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Laterza, Roma 1997, p. 82-83.

[18] P. Singer, Liberazione animale. Il libro che ha ispirato il movimento mondiale per la liberazione degli animali (1975), trad. it. E. Ferreri, Mondadori, Milano 1991, p. 172.

[19] Cfr. T. Regan, The Case for Animal Rights (1985), in P. Singer (ed.), In Defense of Animals, Basil Blackwell, New York 1995, pp. 13-26, qui p. 13.

[20] Cfr. T. Regan, I diritti animali (1983), trad. it. R. Rini, Garzanti, Milano 1990, pp. 214-220.

[21] Cfr. ibid., pp. 260-267 e p. 359.

[22] Cfr. T. Regan, An Examination and Defence of One Argument Concerning Animal Rights, in «Inquiry. An Interdisciplinary Journal of Philosophy», 22, 1-4, 1979, pp. 189-219.

[23] Cfr. T. Regan, The Case for Animal Rights. 2004 Edition, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 2004, p. XVI.

[24] Cfr. T. Regan, Defending Animal Rights, University of Illinois Press, Urbana, p. 21 e T. Regan, Empty Cages: Facing the Challenge of Animal Rights, Rowman & Littlefield, Lanham 2004, p. 61.

[25] Cfr. T. Regan, The Case for Animal Rights. 2004 Edition, cit., p. 367, traduzione mia.

[26] Cfr. T. Regan, Pro e contro i diritti degli animali (1979), trad. it. S. Castignone, in S. Castignone (a cura di), I diritti degli animali: prospettive bioetiche e giuridiche, cit., pp. 145-174, qui p. 166.

[27] Cfr. T. Regan, I diritti animali, cit., pp. 331-337.

[28] Cfr. ibid., pp. 126-175.

[29] Cfr. ibid., pp. 327-328.

[30] Cfr. ibid., pp. 410-419.

[31] Ibid., pp. 410-411.

[32] Cfr. ibid., p. 435.

[33] Cfr. ibid., pp. 443-532.

[34] Cfr. T. Regan, Do Animals Have a Right to Life?, in T. Regan, P. Singer (eds.), Animal Rights and Human Obligations, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1976, pp. 197-204.

[35] T. Regan, Il diritto di vivere (1976), trad. it. S. Castignone, in S. Castignone (a cura di), I diritti degli animali: prospettive bioetiche e giuridiche, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 189-196, qui, pp. 195-196.

[36] Cfr. T. Regan, Animal Rights, Human Wrongs, «Environmental Ethics», 2, 2, 1980, pp. 99-120.

[37] Cfr. T. Regan, I diritti animali, cit., pp. 469-470.

[38] Cfr. J.S. Kennedy, The New Anthropomorphism, Cambridge University Press, Cambridge 1992.

[39] Cfr. M. Midgley, Animals and Why They Matter: A Journey Around the Species Barrier, Penguin Publishers, London 1983.

[40] Cfr. K.E. Goodpaster, On Being Morally Considerable, in «Journal of Philosophy», 75, 6, 1978, pp. 308-325, qui pp. 314-317.

[41] Cfr. ibid., pp. 316-317.

[42] J.B. Callicott, La liberazione animale: una questione triangolare (1980), trad. it. A. Maccarini, in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 203-229, qui p. 204.

[43] Cfr. K.E. Goodpaster, On Being Morally Considerable, cit., pp. 318-320.

[44] Cfr. P.W. Taylor, Respect for Nature: a Theory of Environmental Ethics, Princeton University Press, Princeton 1986, pp. 293-296.

[45] Cfr. C. Palmer, Rethinking Animal Ethics in Appropriate Context: How Rolston’s Work Can Help (2007), in C. Preston, J.W. Ouderkirk (eds.), Nature, Value, Dutry. Life on Earth with Holmes Rolston, III, Springer, Dordrecht 2007, pp. 237-268 e C. Palmer, Animal Ethics in Context: A Relational Approach, Columbia University Press, New York 2010.

[46] Cfr. M. Midgley, Animals and Why They Matter, cit.

[47] Cfr. J.B. Callicott, “Back Together Again” Again, in «Environmental Values», 7, 4, 1998, pp. 461-475, qui p. 466.

[48] Cfr. W. Fox, A Theory of General Ethics. Human Relationships, Nature, and the Built Environment, MIT Press, Cambridge-London 2006, pp. 141-155.

[49] Cfr. P. Singer, Tutti gli animali sono uguali, cit. p. 131.

[50] Cfr. P.W. Taylor, Respect for Nature, cit., pp. 186-192.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *