Adriano Pessina dedica le riflessioni contenute nel suo testo al tentativo di chiarire il senso delle trasformazioni determinate in alcuni particolari ambiti dell’esperienza umana dalla presenza delle nuove tecnologie informatiche e digitali. Il testo si inserisce così all’interno del vivace dibattito contemporaneo riguardo l’impatto che la rivoluzione digitale e gli strumenti informatici hanno sulla società e sulle vite degli individui riuscendo, però, a distinguersi e a emergere per originalità sia per i contenuti delle riflessione presenti al suo interno sia per l’impostazione metodologica volta ad affrontare i suddetti temi non dalla prospettiva dell’osservatore esterno, bensì da quella del fruitore delle moderne tecnologie, cercando di mostrare come l’esperienza dell’io nell’epoca delle tecnologie digitali sia dominata dalla categoria dell’ “essere altrove”, trovandosi «continuamente al crocevia tra presenza e assenza, ben rappresentata dall’irrompere, sui nostri display, di ciò e di chi è altrove» (p. 9).
Prima di restringere il punto d’osservazione della riflessione alle esperienze della vita quotidiana, però, l’autore ritiene necessario riflettere sulle narrazioni che accompagnano lo sviluppo tecnologico e «che finiscono con il costituire il quadro interpretativo che fa da sfondo alla comprensione della nostra esperienza stessa» (p. 15), ponendo questioni che possono portare a mettere in crisi e a ripensare il senso dell’esperienza umana e la rappresentazione che l’uomo ha di sé stesso. L’autore, in particolare, riflette sull’idea, non estranea agli odierni tentativi di «creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso» (p. 17), che il naturale sia da considerarsi imperfetto rispetto al prodotto e all’artificiale. Per comprendere le motivazioni di tale opinione, Pessina suggerisce di evitare di pensare alla tecnica nei termini prometeici della mitologia della tecnica come fato e destino dell’uomo per riflettere, piuttosto, sulla storicità del fenomeno tecnologico e sui cambiamenti che questo determina nell’esperienza quotidiana dei fruitori delle nuove tecnologie informatiche. Porsi dalla prospettiva di quest’ultimi, infatti, significa riconoscere innanzitutto che nella quotidianità si tende in gran parte a ignorare la portata simbolica e la ricaduta sulla comprensione stessa dell’umano che il progresso tecnologico porta con sé.
Il primo aspetto su cui si interroga l’autore ha a che vedere con il modo in cui si trasforma l’esperienza umana del mondo nel momento in cui questa si realizza principalmente attraverso immagini e filmati veicolati attraverso gli strumenti tecnologici. Per rispondere a tale questione, Pessina deicide di mettere a tema la questione della natura ontologica di tali immagini e della realtà che esse trasmettono poiché queste possono avere una differente ricaduta sui vissuti a seconda che le si interpreti come “fatti” o come mere rappresentazioni fittizie. Riprendendo la nozione di fantasma elaborata da Günther Anders, Pessina sostiene che queste immagini siano caratterizzate da una ambiguità ontologica per cui sarebbero in grado di influenzare e alterare sia l’esperienza sia il comportamento degli individui poiché gli avvenimenti trasmessi si presenterebbero al tempo stesso come presenti e assenti, reali e apparenti.
Le immagini veicolate dai moderni dispositivi tecnologici, inoltre, si rivelano anche essere frutto di quella che l’autore definisce una “sovraesposizione antropologica” della realtà. Con tale espressione si intende che l’esperienza individuale mediata dalle nuove tecnologie è «continuamente sovraesposta dall’intervento di altri “punti di vista” antropologici, che restano sullo sfondo, mentre ci presentano frammenti di mondo» (p. 39). Ciò significa, in altri termini, che la realtà trasmessa dalle immagini, nonostante si presenti come empiricamente presente, è in realtà «frutto della mediazione di molteplici agenti umani, che vanno banalmente dall’operatore televisivo alla catena dei decisori e degli operatori che ne permettono la trasmissione» (p. 39).
Continuando a riflettere sulla pervasività delle tecnologie digitali, Pessina si sofferma su come queste offrono la possibilità di collegarsi, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo ci si trovi, alla rete così da interagire con contenuti e persone che sono altrove rispetto al corpo e al luogo fisico in cui ci si trova realmente. Il ritrovarsi con la mente altrove attraverso le tecnologie digitali comporterebbe, secondo l’autore, una progressiva perdita di autonomia e di libertà creativa. L’ambiente digitale, infatti, è un campo governato da altri che raramente appaiono e al quale si è spinti a partecipare poiché mossi dall’«implicito convincimento che ciò che capita altrove sia più interessante di quanto avviene nel luogo in cui stiamo» (p. 51), determinando così una perdita del senso degli spazi empirici e del tempo vissuto come tempo della riflessione. Tale perdita troverebbe la propria espressione nell’«esigenza di trasferire altrove la nostra attenzione e di costruire una duplicazione della nostra presenza» (p. 57), rendendo così l’alienazione un elemento costituivo dell’esperienza individuale.
L’autore non manca, inoltre, di riflettere sulle diverse forme di potere che la rete e gli strumenti algoritmici sono in grado di esercitare influenzando le coscienze e i comportamenti degli individui così come si è soliti mettere in luce nei discorsi riguardanti i fenomeni delle fake news e della post-verità. Il fondamento di tale potere è, secondo Pessina, da ritrovarsi nella diffusione del soggettivismo epistemologico che investe l’intera sfera del conoscere, per cui oggi a essere decisivi non sarebbero più la verità e l’oggettività, bensì solamente le emozioni e i convincimenti di chi crea e diffonde determinate notizie e informazioni. In una tale situazione, le nuove tecnologie non avrebbero fatto altro che consolidare tale impostazione garantendo a tutti «una libertà di parola e di espressione capace di diffondersi oltre la sfera delle relazioni interpersonali e di diventare, grazie al potere degli algoritmi che diffondono i dati dei vari social, un punto di riferimento per altri utenti» (p. 68).
Tale potere, inoltre, si troverebbe a essere rafforzato ulteriormente dal potere teorico che le nuove tecnologie esercitano sull’autocomprensione dell’umano. La cosiddetta rivoluzione informatica, infatti, è stata accompagnata dal consolidarsi di una tendenza volta a comprendere l’essere umano, il suo corpo e i suoi comportamenti come si trattasse di semplici insiemi di informazioni allo stesso modo delle macchine. Il risultato di tale approccio riduzionistico è stato, però, quello di rendere sempre più difficile la salvaguardia dell’umano nella sua specificità spingendo, piuttosto, gli individui a considerare come insignificante tutto ciò che, nella costituzione dell’io, non rientrasse nell’ambito di spiegazione del modello di comportamento informazionale della macchina. Tale situazione, dunque, determina un aumento del potere degli strumenti tecnologici poiché spinge tanto gli utenti quanto i programmatori a credere nella possibilità di «poter fabbricare qualcosa di simile all’uomo tentando di rendere sempre più autonomo – in realtà soltanto autoreferenziale – il processo algoritmico» (p. 92).
In ultimo, affrontando la tematica della relazione tra io e altri, l’autore si interroga su «che cosa avviene delle e nelle relazione con altri quando subentra la mediazione tecnologica» (p. 94). Prendendo atto del fatto che le connessioni che si instaurano ormai quotidianamente con gli altri attraverso la rete non possono essere pensate come la semplice estensione dei rapporti che si intrattengono nella realtà empirica, la questione è, dunque, comprendere se la rete non renda più complesso il riconoscimento degli altri non già in quanto oggetti, bensì nella loro originaria soggettività. La risposta di Pessina è che la rete, in realtà, stravolge il consueto ordine della comunicazione poiché spinge gli individui a confidarsi agli altri ben prima dell’incontro personale in presenza alimentando però, al tempo stesso, il desiderio di poter uscire dalla comunicazione in rete e incontrare l’altro nella sua concreta individualità fisica. L’insuperabile assenza dell’altro nella sua corporeità, tuttavia, fa sì che la rete «mentre promette il superamento dell’isolamento, lo consolida perché alimenta l’auto-rappresentazione che ognuno ha dell’altro» (p. 104), facendo sì che gli altri esistano solo come «congetture animate da rappresentazioni» (p. 104) e rendendo così sempre più lontana la possibilità di approdare a relazioni autentiche, «capaci di trascendere il congetturale oggettivo senza cedere all’immaginario rappresentativo» (p. 104).
Il quadro generale dell’esperienza umana nell’era delle tecnologie digitali che emerge dal testo, dunque, è quello di un’esperienza contrassegnata da un processo che l’autore definisce di «disincarnazione dell’umano» e per il quale tutto ciò che ha a che fare con la condizione corporea e fisica degli individui perde di significato, riducendo l’uomo a una mera macchina informazionale e rischiando così di far perdere di vista ciò che costituisce la specificità dell’umano e della sua intelligenza rispetto alla macchine e all’intelligenza artificiale.
Luca Valentino
S&F_n. 29_2023