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Platone: i disordini dell’anima e il loro riorientamento

Autore


Claudia Maggi

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottore di Ricerca in Filosofia ed è Abilitata come Professore di II Fascia in Storia della Filosofia


  1. Premessa
  2. L’uomo e lo stato ferino
  3. La poesia e la filosofia sull’assenza
  4. Il dolore e la difficoltà dell’autodominio
  5. Il dolore misurato nel pianto di un innamorato

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S&F_n. 32_2024

Abstract


Plato: the disorders of the individual soul and their reorientation

The purpose of my article is to show the relationship in Platonic philosophy between the tripartite structure of the soul, pain, and philosophical research. Plato admits the presence in the soul of a faculty dragged by feral impulses that may be mastered but not suppressed. Hence pain comes forth as a result of communication between the parts of the soul and as an outcome of the conflict between the rational and irrational faculties. Moreover, pain expresses the soul’s reaction in the face of absence, whether it is the intelligible realities or the absence of a beloved individual. The ability to subdue pain represents one of the tests that the philosopher must face in order to become what he aspires to.

  1. Premessa

L’assenza e le emozioni costituiscono in Platone una radice della ricerca, nella misura in cui essa sarebbe avviata anche da uno sconvolgimento, dovuto all’assenza del ricercato, che deve essere poi sottoposto al vaglio della parte razionale dell’anima. Accennando alla relazione tra l’assenza, concepita come costitutiva della distanza tra sensibile e intelligibile, e il suo coglimento emotivo da parte dell’anima, mi concentrerò sulla questione dei disordini dell’anima e sullo statuto del dolore in relazione al lutto, in cui, come ha sottolineato Maria Serena Mirto, il cordoglio risulta intrecciato «con le disposizioni psichiche degli attori» di un vero e proprio «dramma rituale»[1], tanto da diventare lo spartiacque tra un’anima disgregata e una permeata dalla razionalità.

 

  1. L’uomo e lo stato ferino

Nel discutere la relazione tra virtù e condizione emotiva nella filosofia antica, Elisabetta Cattanei rileva come molte interpretazioni relative al modello di uomo virtuoso proposto da Socrate rintraccino in esso, sulla scia di una critica già mossa nell’antichità, un «errore», consistente nel mirare a «una virtù senza emozioni», a una «umanità senza animalità»[2]. A questa virtù anaffettiva Platone e Aristotele avrebbero opposto un tentativo di integrazione, la cui radice affonda, prima ancora che nell’antitesi anima-corpo, in una struttura complessa della psyche, la quale diventa un vero e proprio luogo di dissidi e conflitti[3]. È nel momento in cui si riconosce all’anima una complessità, non priva di caratteri quasi fisiologici, che non è più possibile concepire l’umanità e la bestialità come meramente contrari, ma accade di dovere ammettere «un rapporto stretto, se non […] un’osmosi, tra vita animale e vita umana»[4].

Le immagini di cui Platone si avvale per spiegare la configurazione tripartita dell’anima prevedono, non a caso, il delinearsi di un ibrido antropo-zoo-morfo, in cui non solo l’umano deve intrattenere una costante lotta con l’animale, ma deve talvolta cercare in esso un alleato: tale è il caso del noto mito del Fedro, in cui il cavallo bianco, in un certo senso, si trova a muoversi tra due estremi, quello dell’auriga e quello del bizzoso cavallo nero[5]. La natura intermedia delle emozioni è confermata nella Repubblica, dove l’anima è paragonata a una testa umana che deve cimentarsi con un leone – le emozioni appunto – e con un mostro polimorfo e policefalo, istanziazione di quei desideri primordiali e bestiali che costantemente sfuggono al dominio della ragione e che non potranno mai essere estirpati del tutto, ma solo sottoposti a un controllo prossimo alla strategia della violenza[6].

Ora, se nessuno è indenne da questo fondo oscuro e ferino, ne consegue che la metriotes non sarà l’esito di un possesso stabile e innato, ma, al contrario, il risultato di una lotta, orientata a impedire che nella veglia si manifestino quegli istinti che, in occasione degli stati di sonno, si svincolano dalle briglie del controllo[7]. Si comprende, pertanto, perché Platone si diffonda nella descrizione di una serie di tecniche di controllo, volte a dominare l’irrazionalità pura e a sottrarle il sostegno delle emozioni che, più docilmente, possono sottomettersi alla ragione[8]. Trovano qui posto quei veri e propri esercizi di simulazione da realizzare mediante l’ebbrezza prodotta dal vino, i quali hanno lo scopo di addestrare l’anima a combattere parte con parte, affinché essa si rafforzi nella resistenza alle sue funzioni irrazionali[9]. Si capisce, altresì, perché il tema dell’enkrateia si associ all’analisi della struttura dell’anima almeno a partire dalla Repubblica, ossia quando Platone delinea in maniera inequivocabile la complessità psichica: «as soon as Plato admits that the soul includes at least two parts, and that reason does not necessarily impose its law and its sovereignty upon the other part, which is in open conflict with it, enkrateia rediscovers a reason for existence which it lacked when the soul was monolithic and reason was sovereign»[10].

 

  1. La poesia e la filosofia sull’assenza

È nota la querelle platonica sul rapporto tra filosofia e poesia, così come è largamente condivisa l’idea che la condanna della poesia costituisca questione ambigua e articolata[11]. Nel linguaggio poetico si realizza, tra l’altro, quello stringente nesso tra imitazione ed emozioni che, nel suo lambire la questione ˗ centrale nella speculazione platonica ˗ della mimesis, avvicina il discorso razionale a quello emotivo, obbligando la filosofia ad adottare sistemi ˗ comunicativi, argomentativi, finanche relazionali ˗ volti a impedire alla poesia di scalzarla o di sottrarle parte del suo dominio.

In particolare, si vuole qui sottolineare un aspetto della relazione tra immagine e imitazione: tanto in Platone, quanto nella letteratura greca arcaica, l’immagine «è presente quando si tratta di evocare e di vedere qualcosa di per sé assente», che grazie alla mimesi riesce a essere rappresentato, pur restando l’immagine «irriducibilmente diversa dall’originale», tanto che in essa «la somiglianza e la differenza con il modello risultano indissolubilmente legate»; proprio nella misura in cui «la mimesis è l’espediente che evoca enti privi di forma concreta e li trasforma in immagini visibili agli occhi non sensibili», essa funge, al tempo stesso, da accorgimento narrativo nel linguaggio poetico e da medium implicato nella relazione che salda il sensibile all’intelligibile[12].

Quanto accennato ha una ricaduta ontologica e psicologica. Ciò che è immagine non esiste in sé, ma in-altro, il che dota la ricerca filosofica, orientata a scoprire le radici delle immagini, di una intrinseca natura mancante e, perciò, emotiva. L’assenza del ricercato, in quanto è richiamata dal linguaggio, espone il ricercante al rischio di non cogliere l’oggetto, ma di essere inebriato dalla forza comunicativa della parola che, nel suo invocare/evocare ciò che, di fatto, non si palesa, può sedurre la parte emotiva dell’anima, oscurando l’indagine razionale[13]. La seduzione tocca, soprattutto, quei piaceri misti che saldano l’anima alla terra e alle parvenze, trascinandola in guerre dove, come sarebbe accaduto secondo Stesicoro a Troia, il bottino è l’immagine, non la verità[14].

L’aspetto problematico non risiede nella relazione in quanto tale tra assenza, emozioni, ragione e ricerca filosofica, ma nel nesso tra le parti dell’anima: qualora si assistesse a un prevalere del thymos sull’auriga, l’interezza dell’anima, in virtù della natura intermedia della facoltà emotiva, sarebbe per ciò stesso esposta al ripiegamento di questa verso le pulsioni bestiali. In tal senso, gli effetti sortiti dalla poesia possono diventare simili a quelli prodotti dal sonno, ossia quello stato in cui, come sopra accennato, la parte bestiale dell’anima tiranneggia, allorché la ragione non è vigile: nella misura in cui il poeta tende a ridursi a un veicolo passivo nella restituzione dell’oggetto assente e il fruitore del processo poetico patisce il fascino della parola imitante, si induce infatti nella funzione razionale dell’anima uno stato di annebbiamento e torpore. Diversa risulta la condizione del soggetto coinvolto nel caso dell’indagine sottomessa al vaglio della ragione: qui l’assenza è ricostruita dialetticamente da parte di un attore che, di fronte a se stesso e agli altri, costituisce parte attiva nel processo di appropriazione[15].

 

  1. Il dolore e la difficoltà dell’autodominio

Platone costruisce l’identità del linguaggio poetico a partire da un duplice approccio che, da un lato, accomuna la poesia alla pittura in quanto stravolgitrici di misure – la poesia, infatti, modificando la corretta proporzione di piacere e dolore, impedisce che essi vengano regolamentati dalla ragione; di conseguenza, le emozioni finiscono con l’assumere dimensioni innaturali ed esagerate –; dall’altro coniuga i suoi effetti con quelli prodotti dai lutti, nel caso in cui il pianto sgorghi incontrollato:

Ci sono buone ragioni per criticare il poeta e porlo a confronto col pittore. [...] Egli si rivolge a una parte dell’anima che non è la migliore [...]. I poeti soddisfano e gratificano quella parte che invece con grande sforzo noi cerchiamo di contenere nei momenti di lutto familiare e che di per sé non vorrebbe altro che pianti e lamenti[16].

Nella smodata reazione suscitata dal dolore per la perdita di un amato assistiamo alla estremizzazione di ciò con cui anche la filosofia e l’erotica filosofica si cimentano, ossia l’assenza, tanto che si può individuare nel diverso modo di operare sulle emozioni il sottile confine tra poesia e indagine razionale:

Non è vero che l’imitazione poetica esercita su di noi i medesimi effetti nelle questioni d’amore, nella collera, nelle altre passioni dell’anima […]? Mentre l’imitazione poetica le nutre e le innaffia, sarebbe invece necessario disseccarle […], in modo che si possa diventare migliori e più felici, anziché peggiori e disgraziati[17].

 

Platone non nega il dolore. In quanto l’anima è una realtà complessa, il dolore manifesta i conflitti intrapsichici propri della sua struttura articolata, in cui la sofferenza si produce a seguito del tentativo di una parte dell’anima di governare l’altra. La stessa attività razionale è dolorosa, se davvero inizia con l’avvertimento della mancanza e con il tentativo di abbracciare ciò che non si può pienamente afferrare qui-e-ora[18]. Quello che, tuttavia, Platone non si stanca di ripetere è che questi «due consiglieri opposti e dissennati, che chiamiamo piacere e dolore» devono essere controllati, in modo da evitare che prendano direzioni opposte, frammentando così l’anima. Dunque, la filosofia deve addestrare a un dolore che è, al tempo stesso, produttore di piacere e di felicità[19].

Ciò precisato, è indubbio che Platone individua in alcune espressioni del dolore – tale è la direzione del mito di Er, dove si mostrano i caratteri di una vera e propria fenomenologia della cognizione di sé attraverso esso[20] – un veicolo di conoscenza e di autoconoscenza. Questa sorta di dolore terapeutico non va intesa esclusivamente come inevitabile e naturale, ma può essere anche indotta: emblematico in tal senso un passaggio del Sofista, dove si immagina il filosofo nell’atto di imbarazzare e confondere l’interlocutore, allo scopo di espellere dalla sua anima le opinioni che ne ostacolano la conoscenza, e quindi di avviarlo all’apprensione del vero. L’analogia tracciata qui si richiama a una specifica pratica medica che Platone, in ciò maestro di Aristotele, trasla dall’ambito che le è proprio: la katharsis. Questa si articola in due momenti: uno violento, finalizzato a liberare le ostruzioni corporee; l’altro, terapeutico, volto a somministrare la giusta cura[21].

Tale strategia, che presenta caratteri di singolare somiglianza con la maieutica di derivazione socratica, è oltremodo rischiosa e, pertanto, non pare applicabile a qualsivoglia pratica e forma di sapere o simil-sapere. Proprio a proposito dell’arte maieutica, Platone fa affermare a Socrate che si tratta di un’arte segreta:

In realtà, che io possiedo quest’arte l’ho tenuto nascosto […]. Sono le levatrici, che, fornendo filtri magici e facendo incantesimi, riescono a stimolare le doglie […], a far partorire le gestanti in difficoltà, e a farle abortire, se a loro pare il caso[22].

 

Un’arte che si tiene celata a chi non può comprenderla, che risulta inizialmente dolorosa per coloro sui quali viene applicata e che non è esente da rischi, se è vero che ogni incantesimo – non solo, quindi, quello generato dalla poesia ˗ rischia di determinare nel sedotto uno stato, almeno parziale, di ricezione passiva. Quasi a voler delineare lo spartiacque fra la terapia maieutica e l’irresponsabile azione poetica Platone fa aggiungere al maestro:

Molti […] si sono allontanati da me […] ma, allontanatisi, […] rovinarono tutto ciò che avevano partorito col mio aiuto […]. Quando tornano […] con alcuni il demone che è in me mi trattiene dal riprendere i rapporti, con altri me lo permette, e questi ultimi di nuovo ne traggono vantaggio[23].

 

Poco oltre gli fa rimarcare:

Coloro che mi frequentano, […] provano le stesse sofferenze delle partorienti: hanno le doglie, e notte e giorno sono pieni di perplessità, molto più di quelle. E la mia arte è in grado di destare e di far cessare questa sofferenza[24].

 

La maieutica, dunque, induce stati dolorosi ma, infine, saprebbe come arginarli. Commentando il riferimento al pharmakon in Resp. X, 595 b 6, Maurizio Migliori sottolinea che «il danno che le arti imitative infliggono non ha una valenza assoluta, perché Platone chiarisce subito che vale per chi non possiede l’antidoto»[25]. La colpa della pericolosa universalizzazione del dolore indotto è dunque, in larga parte, ascritta alla poesia: essa, anziché affidare le passioni alla guida della ragione, continuerebbe ad alimentarle senza il bilanciamento del loro contrario e senza sottoporre gli opposti al dominio razionale, trascurando gli effetti di tale operazione in quegli animi maggiormente esposti alla tirannide delle facoltà animali dell’anima[26].

L’emblema di quest’esplosiva miscela emotiva è il ritratto di Socrate a opera di Alcibiade: esso riflette una condizione in cui la passione, sottratta al controllo dell’intelletto, non ha ricevuto la cura della terapia filosofica, con il suo corredo di conoscenza e ordinamento delle parti dell’anima; tant’è che Alcibiade, in assenza di Socrate, non è tale qual è in sua presenza:

Quando […] sento le sue parole, mi batte il cuore e mi vengono le lacrime [...]. Ma poi, non appena mi allontano da lui, mi lascio avvincere dagli onori che la moltitudine mi tributa[27].

 

Qui l’assenza non annuncia, con il ritrarsi dell’oggetto sensibile cercato/Socrate, la dimensione intelligibile, così come essa può essere veicolata dal discorso filosofico. Ciò che viene manifestato è quell’inganno in cui si gioca la tensione mimetica tra poesia e filosofia: l’elogio di Socrate pronunciato da Alcibiade, con i suoi toni al contempo satireschi ed entusiastici, in cui si mescolano il biasimo e l’elogio, fa emergere un’oscillazione nel modo di sentire dell’amante, rivelatrice del disordine in cui versa la sua anima; su di essa i discorsi socratici finiscono con il sortire reazioni analoghe a quelle prodotte dal genere di poesia respinto da Platone, non perché Socrate lo voglia, ma perché l’anima a cui si indirizzano i suoi discorsi si presenta impreparata ad accogliere i benefici della terapia[28].

 

  1. Il dolore misurato nel pianto di un innamorato

Platone, come si è accennato, tende a scoraggiare il pianto, soprattutto quando questo si manifesti in modo scomposto e sia rivelatore di un lutto non assimilato, chiaro indice della paura della morte[29].

Ne è prova icastica l’impassibilità mostrata da Socrate all’approssimarsi della propria fine, un’impassibilità che non arretra neppure di fronte all’afflizione degli allievi ma, anzi, ne riceve fastidio:

La maggior parte di noi era riuscita a trattenere le lacrime […] ma, nel momento in cui lo vedemmo bere […], non ci riuscimmo più. […] Apollodoro […] scoppiò in un pianto e in un lamento tale che straziò chiunque, tranne Socrate. E anzi egli ci rimbrottò: “Cosa state facendo? […] Ho allontanato le donne per evitare questi eccessi […]”[30].

 

Il rimbrotto di Socrate respinge questa modalità di espressione del dolore, non solo in quanto smisurata, ma anche perché annuncia la caducità come evento tragico, piuttosto che concepirla come la transizione verso la sola forma di vita autentica, quella garantita dalla morte sul piano sensibile. Dunque, il maestro prova a riorientare la percezione dell’assenza nei compagni, in modo che il pianto suscitato dal pensiero del suo prossimo distacco non si traduca nell’incapacità di proseguire autonomamente lungo il cammino della ricerca filosofica da lui stesso tracciato. Che l’assenza non debba generare reazioni sconvenienti, allorché la sua dimensione ontologica sia stata definita, è confermato da un altro espediente letterario utilizzato nel Fedone. Echecrate sta domandando a Fedone chi era presente nei momenti finali della vita del maestro, ricevendo questa risposta:

C’erano Apollodoro, Critobulo […] Ermogene, Epigene, Eschine, Antistene […]. Invece Platone credo fosse malato[31].

 

In occasione del processo intentatogli, Socrate indica agli Ateniesi alcuni dei suoi più fedeli uditori, e fra questi è annoverato Platone[32]. Presente durante la condanna, quest’ultimo risulta però assente nel momento in cui il maestro discute delle leggi e dell’anima con gli amici e si prepara a ingerire il veleno. Ho altrove ipotizzato che una delle ragioni di tale espediente potrebbe essere individuata nel fatto che al Platone narratore sembrò preferibile dipingersi lontano, piuttosto che essere annoverato tra i compagni che non si astennero dal pianto[33].

Va rilevato un particolare ulteriore: tra i convenuti presenti nel carcere compare Antistene e, come ricorda Giuseppe Cambiano, è questo l’unico passo in cui Platone cita esplicitamente uno dei più celebri allievi del suo maestro[34]. Potrebbero non essere casuali né il silenzio platonico, né la decisione di collocare qui questa presenza, se si considera che ad Antistene è attribuita una concezione del dolore e del piacere – conformandosi alla quale si rischierebbe che essi diventino produttori di reazioni sregolate, in quanto privi di un adeguato sfondo metafisico – che Platone intende contestare in dialoghi come il Filebo[35].

Discutendo del Fedone, Lidia Palumbo precisa che «è indubbio che Platone intende presentare Fedone come innamorato di Socrate»; una scelta intenzionale, volta ad affidare la memoria di quei momenti a un narratore che non può essere neutrale, e che, pertanto, nell’universalizzare l’evento preserverà quella sua dimensione intima e individuale che, ancora una volta, non priva il resoconto filosofico di una connotazione emotiva[36]. Quest’ultima presenta nel dialogo un carattere duplice: da un lato, Fedone ricorda di essere stato tra coloro i quali non riuscirono ad astenersi dal pianto, per quanto la sua reazione non sia da annoverare tra le più scomposte; dall’altro, egli mostra, nel momento della narrazione e del ricordo, un atteggiamento riflessivo, proprio di chi abbia assimilato l’evento e lo abbia trasformato in un’occasione di meditazione che ha condotto l’anima a conoscere se stessa[37]. La serenità nel ricordare, che in qualche modo annuncia uno dei temi del dialogo, ossia la reminiscenza, mostra, nelle intenzioni di Platone, come sia possibile che l’assenza di un amato, una volta che essa si sia correttamente riflessa nell’animo dell’amante, possa istanziare quell’apertura verso l’intelligibile che solo un’anima ordinata può (ri)conquistare[38].

Il rapporto da lontano tra Fedone e Socrate ne lascia intravedere, attraverso i continui giochi e rimandi della scrittura platonica, un altro: quello tra Platone e il suo allievo Dione. Una relazione simile, ma al tempo stesso inversamente speculare, in quanto, in questo caso, è stato l’allievo a sottrarsi. Il ricordo di quest’assenza è racchiuso in un’elegia che Diogene Laerzio attribuisce a Platone:

Lacrime per Ecuba e per le donne d’Ilio

Le Moire decretarono allorché esse nacquero:

Su te, o Dione, che realizzasti trionfalmente belle opere,

Gli esseri celesti riversarono invece diffusamente speranze.

Ora giaci nella vasta patria onorato dai concittadini;

Tu, o Dione, che rendesti il mio thymos folle d’amore

(ὦ ἐμὸν ἐκμήνας θυμὸν ἔρωτι Δίων)[39].

 

La paternità della lirica è dubbia[40]. Essa, in ogni caso, stigmatizza una relazione di assenza che fa eco a quella descritta nel Fedone e che reca altre tracce nei dialoghi, se è vero, come Martha Nussbaum ha ipotizzato, che la palinodia socratica nel Fedro nascerebbe anche da una ritrattazione autobiografica, risultante dal rapporto che Platone avrebbe intrattenuto con Dione[41]. Una relazione che, analogamente a quella tra Socrate e Fedone, sarebbe stata costruita su una complessa condivisione di ideali e avrebbe favorito il ripensamento platonico della struttura dell’anima, con ciò accentuandone i caratteri polimorfi, in cui il thymos, se correttamente educato, può assurgere ad alleato della sfera razionale[42].

Simili considerazioni confortano la tesi di quanti hanno intravisto nell’eros platonico una natura intrinsecamente anfibia e decentrata, constatando come l’eros sia di per sé un’esperienza estatica: essa, nel trascinare l’individuo fuori di sé, determina le condizioni per un suo possibile ritrovarsi in una trascendenza/assenza che, comunque, non esclude l’abbraccio corporeo, con tutto il suo corredo di aspetti emotivo-corporei e fisiologici[43]. Eppure, come è stato rilevato, «di fronte ad una grande disgrazia un uomo maturo soffre, ma sa sopportare meglio di altri questa prova», attraverso l’assunzione di un «comportamento saggio e tranquillo […], razionale più che ascetico»[44], che trova sostegno nell’inquadramento del singolo evento tragico in una cornice universale, in un’analisi razionale di quanto accaduto, in «un allenamento consolidato al guarire e al risollevarsi»[45].


[1] M.S. Mirto, La morte nel mondo greco: da Omero all’età classica, Carocci, Roma 2007, p. 59.

[2] E. Cattanei, “Al di sotto” di emozioni e virtù? La “bestialità” in Platone e in Aristotele, in Emozioni e virtù. Percorsi e prospettive di un tema classico, in S. Langella, M. S. Vaccarezza (a cura di), Emozioni e virtù. Percorsi e prospettive di un tema classico, Orthotes, Salerno 2014, p. 24.

[3] Ibid., p. 26. Sul modello, bipartito o tripartito, dell’anima platonica rinvio a M. Migliori, Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone II. Dall’anima alla prassi etica e politica, Morcelliana, Brescia 2013, p. 741 e ss.

[4] E. Cattanei, “Al di sotto” di emozioni e virtù?..., cit., p. 27.

[5] Cfr. Plat., Phaedr., 246 b.

[6] Cfr. Plat., Resp., IX, 588 c-589 b; E. Cattanei, “Al di sotto” di emozioni e virtù?..., cit., pp. 30-31; M. Migliori, Il disordine ordinato, cit., p. 756.

[7] Cfr. Plat., Resp., IX, 571 c-d.

[8] Cfr. in tal senso i contributi presenti nel volume miscellaneo di F. Benoni, A. Stavru (a cura di), Platone e il governo delle passioni. Studi per Linda Napolitano, Aguaplano, Perugia 2021.

[9] Cfr. Plat., Leg., I, 645 c e ss.

[10] L.-A. Dorion, Plato and enkrateia, in Ch. Bobonich, P. Destrée (ed.), Akrasia in Greek Philosophy: from Socrates to Plotinus, Brill, Leiden 2007, pp. 130-131.

[11] Cfr. B. Boysen, Poetry, Philosophy, and Madness in Plato, in «Res cogitans», 13, 2018, pp. 154-184; A. Nehamas, Plato on Imitation and Poetry in Republic 10, in J. Moravcsik, Ph. Temko (ed.), Plato on Beauty, Wisdom, and the Arts, Rowman and Littlefield, New Jersey 1982, p. 51 e ss. Per una rassegna complessiva sul tema rinvio al volume miscellaneo di P. Destrée, F.-G. Herrmann (ed.), Plato and the Poets, Brill, Leiden-Boston 2011.

[12] Cfr. Plat., Resp., V, 476 c; Soph., 240 a. Per tali considerazioni cfr. B. Botter, Emozione e realtà nell’immagine di Platone, in «Revista Classica», 28, 2015, pp. 19, 27, 29. Cfr. anche L. Palumbo, Mimesis ed enthousiasmos in Platone. Appunti sul Fedro, in G. Casertano (a cura di), Il Fedro di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2011, p. 171.

[13] B. Botter, Emozione e realtà nell’immagine di Platone, cit., p. 31.

[14] Cfr. Plat., Resp., IX, 586 a-c; Phaedr., 243 a-b; Stesic., fr. 11 Diehl. Sul legame tra le parti inferiori dell’anima e le immagini intese come veicolo di illusione cfr. J. Moss, Appearances and Calculations: Plato’s Division of the Soul, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 34, 2008, pp. 35-68.

[15] Cfr. D. Scott, Plato, Poetry and Creativity, in P. Destrée, F.-G. Herrmann (ed.), Plato and the Poets, cit., pp. 131-154; E. Belfiore, Poets at the Symposium, in ibid., pp. 155-174; M. Tegos, Mimesis in Plato and Aristotle ˗ or ˗ Why Plato Bans the Poets from the Republic, in K. Boudouris, A. Roth (ed.), The World Congress of Philosophy. The Philosophy of Aristotle, Ionia Publications, Athens 2018, p. 241. Va da sé che il discorso qui accennato non entra né nel merito dei molteplici ruoli che svolgono in Platone le immagini - esse possono agire sulla sensibilità, reiterando gli errori della percezione, ma possono anche svolgere un ruolo anagogico, con il loro stimolare l’anima a condurre una ricerca sull’intelligibile -, né nell’altrettanto complesso statuto della mimesis, che richiederebbe, soprattutto in ragione del ruolo ad essa assegnato nel Timeo, un discorso separato. Sulla fluidità lessicale e speculativa di tali termini cfr. ad es. Z. A. Petraki, The ‘philosophical paintings’ of the Republic, in «Synthesis», 20, 2013, pp. 71-91.

[16] Plat., Resp., X, 605 e ss. Cfr. Ibid., 603 a-d; B. Botter, Condanna e assoluzione della poesia nella Repubblica di Platone, in «Éndoxa: Series Filosóficas», 36, 2015, pp. 35-36; M. Migliori, Il disordine ordinato, cit., p. 996; P. Cosenza, R. Laurenti (a cura di), Il piacere nella filosofia greca, Loffredo, Napoli 1993, pp. 126-127; M. S. Kardaun, Plato’s fear of tragedy, in «Psy Art Online Journal of psychological Studies of the Art», 7, 2014, pp. 1-24; P. Destrée, Plato on tragic and comic pleasures, in A. E. Denham (ed.), Plato on art and beauty, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012, pp. 128-130. Per le traduzioni da Platone ho preso come riferimento, qui e oltre, G. Reale (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991.

[17] Plat., Resp., X, 606 d.

[18] Cfr. Plat., Phaedr., 250 d-e.

[19] Cfr. Plat., Leg., I, 644 c-e. Per approfondire tali questioni e altre a esse connesse cfr. M. S. Mirto, La penetrazione del dolore: l’etimologia di odyne tra Omero e Platone, in «Hermes», 139, 2011, pp. 147-162; F. B. Barone, Educazione e pederastia nell’Atene di Platone, in «Pedagogia e Vita», 3-4, 2009, pp. 162-167; F. Ferro, Fenomenologia dell’eros. Stupore e decentramento in Platone e Levinas, in A. Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Monza 2016, vol. IX, p. 177; A. Stavru, Socrate karterikos (Platone, Simposio 216c-221b), in M. Tulli, M. Erler (ed.), Plato in Symposium: Selected Papers from the Tenth Symposium Platonicum, Academia Verlag, Sankt Augustin 2016, pp. 347-353; F. Fronterotta, La concezione dell’anima nella Repubblica di Platone, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 89, 2010, pp. 517-552; R. Singpurwalla, Soul Division and Mimesis in Republic X, in P. Destrée, F.-G. Herrmann (ed.), Plato and the Poets, cit., pp. 283-298.

[20] Cfr. Plat., Resp., X, 619 d ss.

[21] Cfr. Plat., Soph., 230 b-d e M. Centanni, L’eccitazione e la temperatura delle passioni: l’estetica del tragico da Platone ad Aristotele, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli», 17, 1995, pp. 76-80.

[22] Plat., Theaet., 149 a ss.

[23] Ibid., 150 e-151 a.

[24] Ibid., 151 a-b. Per un commento al passo cfr. C. Maggi, Diffrazioni. Divine discontinuità in Platone, Plotino, Michaelstaedter, Limina Mentis, Monza 2021, pp. 37-39.

[25] M. Migliori, Il disordine ordinato, cit., p. 759.

[26] Ibid.

[27] Plat., Symp., 215 e; 216 b.

[28] Cfr. M. Narcy, Socrate nel discorso di Alcibiade (Platone, Simposio 215 a-222 b), in L. Rossetti, A. Stavru (a cura di), Socratica 2005. Studi sulla letteratura socratica antica presentati alle Giornate di studio di Senigallia, Levante, Bari 2008, p. 287 e pp. 298-303; G. Cerri, Tragedia e commedia nel finale del Simposio di Platone (una nuova proposta ermeneutica), in M. Tulli (a cura di), Philia. Dieci contributi per Gabriele Burzacchini, Patron, Bologna 2014, p. 35 e n. 3; P. Destrée, Plato on tragic and comic pleasures, cit., p. 126.

[29] Cfr. F. Trabattoni, Socrate, Antistene e Platone sull’uso dei piaceri, in Socratica 2005…, cit., p. 259.

[30] Cfr. Plat., Phaed., 117 c-e.

[31] Ibid., 59 b.

[32] Cfr. Plat., Apol., 34 a.

[33] Rinvio a C. Maggi, Socrate e la piazza. Sull’amore immaginato, in «Sinestesie on-line (Supplemento della Rivista Sinestesie)», 4, 2013, pp. 11-12.

[34] Cfr. G. Cambiano (a cura di), Dialoghi filosofici di Platone, Utet, Torino 19872, p. 523, n. 10.

[35] Cfr. la discussione in F. Trabattoni, Socrate, Antistene e Platone sull’uso dei piaceri, cit., pp. 235-262. Sul piacere nel Filebo cfr. M. Migliori, Il disordine ordinato, cit., pp. 969-997.

[36] Cfr. L. Palumbo, Le emozioni e il pensiero nel Fedone di Platone, in P. Venditti (a cura di), La filosofia e le emozioni. Atti del XXXIV Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana (Urbino, 26-29 aprile 2001), Le Monnier, Firenze 2003, pp. 291-292.

[37] Ibid., p. 294.

[38] Ibid., p. 299.

[39] Diog. Laer., Vitae philosophorum, III, 30 = Anthologia Palatina, VII, 99 (Traduzione mia).

[40] A favore dell’autenticità cfr. C. M. Bowra, Plato’s epigram on Dion’s death, in «American Journal of Philosophy», 59, 1938, pp. 394-404. Si veda la discussione della questione in M. C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, tr. it. Il Mulino, Bologna 20042, pp. 438-439 e note 1, 5.

[41] Cfr. M. C. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., pp. 432-433 e rinvii, pp. 381-448 e rinvii; C. Maggi, La scena filosofica. Note su Platone, Schopenhauer, Nietzsche, Michelstaedter, in A. Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, cit., pp. 81-83; F. Trabattoni, Platone, Martha Nussbaum e le passioni, in G. R. Giardina (a cura di), Le emozioni secondo i filosofi antichi. Atti del Convegno Nazionale (Siracusa, 10-11 maggio 2007), CUECM, Catania 2008, pp. 39-61.

[42] Cfr. M. C. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 390 e ss.

[43] Cfr. Plat., Phaedr., 251 a-c; R. M. Rosen, Galen, Plato, and the physiology of Erôs, in E. Sanders, Ch. Thumiger, Ch. Carey, N. J. Lowe (ed.), Erôs in Ancient Greece, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 112-117. Si veda anche G. Vlastos, The Paradox of Socrates, in Id. (ed.), The Philosophy of Socrates. A collection of critical essays, Doubleday & Co., Garden City NY 1971, p. 16; Id., The Individual as an Object of Love in Plato, in Id., Platonic Studies, Princeton University Press, Princeton N.J. 1973, p. 31; F. Ferro, Fenomenologia dell’eros, cit., pp. 172-173 e nota 3; pp. 175-176.

[44] M. Migliori, Il disordine ordinato, cit., p. 996.

[45] M. Erler, La felicità delle api. Passione e virtù nel Fedone e nella Repubblica, in M. Migliori, L. M. Napolitano Valditara, A. Fermani (a cura di), Interiorità e anima: la psychè in Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 68.

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