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Deep o Social Ecology? Un dibattito a partire da Herbert Marcuse

Autore


Maria Teresa Catena

Università degli Studi di Napoli Federico II

Professoressa Ordinaria di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


 

  1. Un possibile suggerimento
  2. La deep ecology e l’ecosofia di Arne Naess
  3. La Social Ecology di Murray Bookchin
  4. Andrew Light lettore di Marcuse

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S&F_n. 31_2024

Abstract


Deep or Social Ecology? A Debate from Herbert Marcuse

Marcuse After comparing the different perspectives of ‘Deep Ecology’ and ‘Social Ecology,’ the essay proceeds to analyze the Andrew Light’s proposal. Particular attention is paid to the role that Light believes Marcusian theory of nature and society could play to recompose the different perspectives.

Deep o Social Ecology? Un dibattito a partire da Herbert Marcuse

 

  1. Un possibile suggerimento

È noto come, fin dalle sue origini, il movimento ambientale si sia sviluppato anche attraverso accesi dibattiti dedicati al preciso significato da attribuire al termine “ecologia”[1].

Un esempio tra tutti fu la feroce polemica scoppiata negli anni ’70 negli Stati Uniti, che vide protagonisti l’accademico norvegese Arne Naess, teorico della Deep Ecology, e l’anarchico Murray Bookchin, sostenitore della Social Ecology.  A cercare di riassumerla, possiamo dire che, agli occhi di quest’ultimo, l’EcosofiaT del primo, non solo mancava del tutto di una solida analisi teorica dei rapporti tra gerarchia sociale e crisi ambientale, ma portava con sé l’imperdonabile conseguenza pratica di non riuscire a evitare pericolose posizioni “ecofasciste”. Dal canto suo, Arne Naess riteneva indispensabile emanciparsi da rigide griglie di lettura, colpevoli di sclerotizzare le possibili soluzioni prospettate e, più complessivamente, di minare alla base l’unità stessa del movimento ecologista, cui necessitava, a suo modo di vedere, il richiamo a un più ampio sistema di valori[2].

Rispetto a queste reciproche accuse, un lettore di Herbert Marcuse, Andrew Light, suggerì a entrambi di richiamarsi alla filosofia del francofortese, la cui idea che la corrente ecologista fosse insieme «movimento politico e psicologico»[3] poteva costituire un’indicazione utile alla creazione di un ponte tra le due opposte anime.

Trattasi di un suggerimento che, è bene sottolinearlo sin da subito, verrà poi abbandonato dallo stesso Light, per motivi che vale senz’altro la pena indagare, soprattutto tenuto conto che ancora oggi l’ecologismo si articola tra una “politica della protesta” e una “politica della prefigurazione”.

Ma, per il momento, proviamo a ricostruire più nei dettagli i contorni della vicenda.

 

  1. La Deep Ecology e l’Ecosofia di Arne Naess

Come gli addetti ai lavori sanno, il termine Deep Ecology venne introdotto dal filosofo e alpinista norvegese Arne Naess durante il suo intervento inaugurale alla terza World Future Research Conference, tenutasi a Bucarest dal 3 al 10 settembre 1972 e poi pubblicato sulla rivista Inquiry, con il titolo The Shallow and the Deep, Long Range Ecology Movement. A summary[4].

Qui Naess partiva dalla constatazione che gli obiettivi e le pratiche emerse nel giovane movimento ecologico internazionale non si limitavano affatto a riflettere pedissequamente gli allarmi e le prescrizioni della scienza del tempo: secondo lui, infatti, la mobilitazione presentava chiaramente un “di più” «ecofilosofico», sarebbe a dire un «sistema di valori» che, costituito dall’intreccio «sia [di] norme, regole, postulati, affermazioni di valore, sia [di] ipotesi che riguardano gli stati di fatto del nostro universo», si mostra «solo in parte basato sui risultati della ricerca scientifica» e – si badi bene – del tutto irriducibile alle sue precise spiegazioni.

In fondo, la stessa molteplicità delle posizioni presenti nel movimento sarebbe dovuta a questa premessa; la qual cosa renderebbe urgente, secondo il filosofo formatosi presso il Circolo di Vienna, una sistematizzazione dell’approccio ecologico in principi o «assiomi» generali, il cui obiettivo ultimo è costituire un ampio «movimento della Deep Ecology» e, insieme, una sua distinzione dalla cosiddetta «Shallow Ecology», appiattita sulla semplice «lotta contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse» per garantire «la salute e l’opulenza delle persone dei paesi sviluppati»[5].

A tale scopo, Arne Naess elencava sette principi fondamentali, il primo dei quali consiste nel «rifiuto dell’immagine dell’uomo-nell’-ambiente, a favore dell’immagine relazionale del campo totale (relational, total-field-image)»; formula con la quale, in tutta evidenza, egli voleva sottolineare l’idea che gli organismi, lungi dall’essere entità separate in grado di entrare in contatto tra loro solo in un secondo momento, sono piuttosto posti in una «relazione intrinseca» e radicalmente costitutiva della loro identità.

Va da sé che nessun essere, tantomeno l’uomo, si sottrae a questa legge. La stessa specie umana, infatti, è del tutto impensabile senza gli altri enti, dalla cui interdipendenza trae «piacere e soddisfazione».

Trattasi di una premessa inaggirabile, di cui il movimento non può non tenere conto. Solo nella misura in cui estende il «diritto a vivere e fiorire» anche al mondo non umano, opponendosi così alla sua restrizione «antropocentrica», l’ecologismo sarà in grado di diventare deep – profondo – e, in quanto tale, capace di combattere concretamente l’«alienazione dell’uomo da se stesso» in nome della «qualità della vita degli uomini». È nell’ottica di questo «egualitarismo biofisico» – il secondo principio indicato da Naess – che la Deep Ecology si pone il problema della sovrappopolazione tra specie diverse, osservando tanto l’eventuale squilibrio tra uomini e non-uomini quanto la presenza preponderante della specie uomo rispetto a tutte le altre.

Un terzo importante assunto ne deriva. Lo studioso lo chiama il «principio della diversità e della simbiosi», secondo cui la moltiplicazione della bio-diversità e la cooperazione tra le specie è da considerarsi una strategia di sopravvivenza decisamente più vincente di quella basata sulla competizione e riduzione della diversità attraverso «lo sterminio, lo sfruttamento, la repressione». In proposito, e con uno motto particolarmente efficace, egli afferma che il «vivi e lascia vivere è un principio ecologico più potente del ‘o tu o me’».

Naturalmente, in nome dell’egualitarismo biofisico, questa considerazione deve valere allo stesso modo per il mondo umano e per quello non-umano; come a dire che «atteggiamenti di ispirazione ecologica» si oppongono tanto «all’annichilimento delle foche e delle balene quanto alla [soppressione] delle tribù e delle culture degli uomini», la cui diversità di «forme di vita, culture, occupazioni ed economie» va difesa senza mezzi termini.

Non è – conviene sottolinearlo – un’affermazione di banale e acritico egualitarismo. L’autore, infatti, ci tiene a precisare quanto la Deep Ecology sia consapevole che nel mondo umano troppo spesso le differenze derivano da sfruttamento e repressione. Non è un caso che, a riguardo, egli sottolinei immediatamente come ogni condanna di atteggiamenti e scelte anti-ecologiche debba essere sempre fatta mantenendo fermo il quarto principio della «postura anti-classista». Così, la stessa affermazione del successivo principio, il quinto – la «lotta contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse» – risulta valida solo se non entra in contrasto con il precedente assunto; sarebbe a dire assicurandosi, ad esempio, che i costi di impianti anti-inquinamento non vadano a colpire le persone più povere. «L’etica della responsabilità», afferma in proposito l’eco-filosofo, non può andare a detrimento dell’«atteggiamento totale», come avviene nel caso di alcuni ecologisti, sottomessi «a padroni che ignorano volutamente prospettive più generali».

È un punto dirimente, sul quale Naess ritorna spesso, riportando la differenza tra «diversità» e «diseguaglianza di classe» alla distinzione tra «complessità» e «ciò che è complicato senza alcuna Gestalt o principio unitario». Gli organismi viventi e le relazioni biosferiche – chiarisce – pur obbedendo al sesto principio e dunque esibendo un elevato livello di complessità, non sono affatto portatori di disordine o diseguaglianza: non è un caso che, laddove si trovino a dover affrontare l’interazione di molteplici fattori, tendono a formare, più o meno spontaneamente, diverse unità di sistema, creando sempre e solo complessità e mai complicazioni.

Come si vede, l’intento di queste pagine va ben oltre la ricerca dell’individuazione di proposizioni valide ad esclusiva salvaguardia della natura: loro scopo, piuttosto, è provare a tratteggiare percorsi in grado di rivedere le forme di vita sociali. Di un certo interesse, a riguardo, è l’utilizzo doppio, per così dire, del concetto di complessità, dal quale l’autore fa derivare tanto una limitazione dell’improbabile pretesa scientifica al controllo assoluto, a tutto favore di una più modesta «chiarificazione delle sue possibilità», quanto una diversa idea di organizzazione del lavoro, secondo la quale il raggiungimento di uno «sviluppo integrale» della persona non avviene abolendo l’insuperabile «divisione del lavoro» ma aggirandone la «frammentazione» e, ad esempio, favorendo l’integrazione tra «attività industriali e agricole».

Allo stesso modo, il binomio complessità/complicazione torna utile per riflettere sulle modalità applicative legate al settimo ed ultimo principio-guida della Deep Ecology, in base al quale la vulnerabilità di una forma di vita è direttamente proporzionale al suo grado di dipendenza da fattori esterni diversi da quelli in cui «ha conquistato un equilibrio ecologico». È chiaro, infatti, che gli assunti «dell’autonomia locale» e dell’«auto-sufficienza materiale e mentale» non devono né possono portare a demonizzare indistintamente e a priori ogni forma di gerarchia sociale, la cui legittima complessità va invece ben distinta, stando alle parole dello studioso, dalla perniciosa complicazione, tipica di tutti i fenomeni di eccessiva centralizzazione dei processi decisionali e altrettanto eccessiva articolazione dei livelli della «catena gerarchica delle decisione». Pertanto, sarà questa seconda forma di apparente organizzazione a dover essere combattuta da chiunque voglia affrontare il fenomeno dell’inquinamento, non a caso cresciuto con l’aumento esponenziale dell’interdipendenza e la pletorica complicazione nel mercato mondiale.

Certo, nello scorrere la disamina dei principi, il lettore non può sottrarsi all’impressione di trovarsi di fronte a «generalizzazioni piuttosto vaghe»[6], per usare le parole dello stesso Naess, per il quale, tuttavia, questa vaghezza resta lo scotto da pagare per realizzare l’intento che maggiormente gli sta a cuore: trovare linee guida comuni capaci di unificare le molte – troppe – anime del movimento ecologico.

 

  1. La Social Ecology di Murray Bookchin

Ben diversa la posizione dell’anarchico Murray Bookchin il quale, già alla metà degli anni Sessanta, andava distinguendo tra «ecologia sociale» (Social Ecology) e «ambientalismo» (Environmentalism), ovvero il «credo ingenuo» in «un’accozzaglia di riforme e promesse solenni da parte di burocrati dell’EPA», al quale la concezione «vaga, informe, spesso autocontraddittoria»[7] dell’ecologia del profondo aveva dato il solo contribuito di aumentare confusione e smarrimento.

Per il pensatore americano, infatti, la principale debolezza della Deep Ecology risiede nella concezione astorica del rapporto tra uomo e natura: ad una «vaga specie chiamata umanità» , afflitta dal «‘peccato originale’» dell’«antropocentrismo», i Deep Ecologist oppongono «un qualche vago dominio della “natura”», invasa e contaminata nella sua purezza da una «costellazione di esseri umani non naturali con le loro tecnologie, menti e società». Concezione assurda, secondo la quale, l’uomo, proseguiva sarcasticamente l’autore, si sarebbe salvato solo in «nome di una ‘eguaglianza biocentrica’» , acquisendo cioè la consapevolezza di essere parte di una «comunità» indifferenziata di piante, animali, uomini, all’interno di un più complessivo «piano cosmico di esseri ‘congelati’ in un momento di eternità, da adorare e riverire».

In questa cornice indifferenziata, secondo Bookchin, i fenomeni sociali si trasformano in meri fatti biologici, soggetti a forze del tutto estranee all’uomo; motivo per il quale, la «Grande Connessione dell’Intero»[8] del biocentrismo ecologista finisce per escludere a priori ogni via sociale ad un mondo sostenibile.

Non è un caso, del resto, che l’ecologia del profondo declini uno dei suoi principali crucci, vale a dire gli effetti della sovrappopolazione umana sulle altre specie e sulle risorse naturali, sulla base di uno spietato malthusianesimo. Clamoroso, in proposito, il caso di David Foreman, leader di Earth First! che, in un’intervista rilasciata a Bill Devall e George Session – insieme a Naess, membri del “trio” della Deep Ecology - aveva dichiarato che gli Stati Uniti non sarebbero mai dovuti intervenire per aiutare la popolazione africana afflitta da malnutrizione e AIDS, essendo fame e malattie «mezzi di controllo» del tutto naturali, nonché auspicabili in termini ambientali; piuttosto che assisterli, dunque, bisognava «lasciare che la natura trovi il suo equilibrio»[9].

Pertanto, de-naturalizzare la concezione astorica dell’ecologismo del profondo, senza appiattire il mondo non-umano in un’entità esclusivamente socio-culturale, è assolutamente necessario, al fine di impedire che l’«ecobrutalismo» prenda piede nel movimento ambientale.

In questa diversa direzione, la Social Ecology del filosofo politico americano intende la natura come un processo evolutivo che, a partire dagli amminoacidi più semplici, produce le forme estremamente complesse del «pensiero concettuale», della «comunicazione simbolica più sofisticata» e dell’«autocoscienza» nell’uomo – vera e propria «natura resa auto-cosciente». A partire da queste facoltà specifiche, la società umana può quindi essere considerata come una «seconda natura» che, «prodotto dell’evoluzione naturale», non si distingue affatto dalle altre comunità animali e vegetali; anche se – è bene sottolinearlo – essa resta pur sempre, al tempo stesso, una natura seconda grazie alla sua capacità di auto-modificarsi «secondo scopi, volontariamente» e in maniera organizzata e collettiva. Come tale, è chiaro, la dimensione umana ha una sua «propria storia»; una storia che, solo relativamente e in una certa misura, è soggetta a forze non-umane.

A sostegno della sua posizione, Bookchin fa riferimento alla distruzione perpetrata ai danni dell’ambiente; vera e propria paradossale conferma che gli uomini, non completamente dipendenti dalla natura, hanno la «capacità di intervenire su di essa – di alterarla», secondo modi e forme «altamente creativi o distruttivi»[10]. A ben guardare, pertanto, il fatto che gli esseri umani «siano atti ad agire sulla natura, intervenire nei processi naturali, alterarli in un modo o in un altro, è un prodotto dell’evoluzione naturale al pari dell’azione di qualsiasi altra forma di vita sul proprio ambiente»; la direzione presa dall’intervento sull’ambiente, tuttavia, non dipende solo da questa seconda natura, data la presenza di quella natura seconda, il cui controllo non sempre l’uomo è in grado di gestire «secondo scopi e volontà, cioè razionalmente e – si spera - ecologicamente».

Tra le righe del discorso si fa strada dunque anche la richiesta, all’umanità, di una nuova postura morale, che sia alternativa all’indiscriminata estensione biocentrica della soggettività a tutto il mondo organico. Riprendendo un naturalismo e un umanesimo di sapore rinascimentale, Bookchin ritiene infatti indispensabile valorizzare «la razionalità, la sensibilità estetica e le potenzialità etiche di questa straordinaria specie»: questa scelta, spiega, non significa affatto elevare l’uomo sopra e contro la natura ma, all’opposto, evitando qualsiasi riduzione dell’umano al non umano, riconoscere la «ricca fecondità della stessa evoluzione naturale», nella sua capacità di fornire alla soggettività umana e alle sue costruzioni sociali un ruolo dirimente nella soluzione dei tanti problemi ecologici.

Insomma, qui si tratta di individuare risposte sociali alle tante problematiche ecologiche, una fra tutte quella posta dalla sovrappopolazione. È in questa prospettiva che l’autore, non senza una certa problematicità, sostiene l’idea di una consapevole scelta demografica decrescente, ritenendola un mezzo praticabile non solo per limitare l’incontrollata crescita della popolazione, ma anche a «garantire alle persone vite decenti, educazione, nonché la percezione di un senso creativo nell’esistenza e, soprattutto, per liberare le donne dal ruolo di mere portatrici di bambini»[11].

In conclusione, in un evidente attacco polemico alle posizioni della Deep Ecology, l’eco-filosofo sostiene che la strada per una società ecologica non sta affatto nell’inserire l’individuo nella «Grande Connessione del Tutto», da lui ritenuta nient’altro che la versione riveduta e corretta di un crescente totalitarismo; piuttosto, afferma, è la soggettività a dover cambiare di segno, provando ad abbandonare l’eccesso di «individualismo» (selfness) per accedere a un sé (self) che, portatore di un nuovo senso dell’individualità» (selfhood) sia in grado di «re-individualizzare» gli esseri umani, rendendoli, finalmente, «agenti attivi nel trasformare la società»[12].

 

  1. Andrew Light lettore di Marcuse

Come si evince da questa breve disamina, le prospettive dei due autori si mostrano talmente diverse tra loro – quando non decisamente irriducibili – da far sorgere non pochi dubbi circa una loro possibile componibilità. Ciononostante, Andrew Light, almeno durante tutti gli anni Novanta, richiamandosi al pensiero di Herbert Marcuse, provò a gettare un ponte tra le loro due opposte sponde teoriche[13].

In breve, la strategia da lui adottata consisteva nel considerare la Deep e la Social Ecology come espressioni possibili, anche se non uniche, di categorie teoretiche più ampie. Detto in altri termini, lo studioso provava a riportare le due correnti a un livello di maggiore generalità, con la speranza che, da questa prospettiva, si potessero individuare tra loro quei legami, viceversa, perduti nel limitare il loro significato e la loro sfera d’azione, da un lato, a una mera riforma del sé e, dall’altro, a un’altrettanto pura e semplice riforma della società.

Così, osservata da questo punto di vista, la Deep Ecology si mostrava come una «forma di ontologia ambientale» che, meno attenta agli aspetti materiali della società, concentrava le sue analisi sulla divaricazione «psicologica o spirituale» tra il sé e la natura, con lo scopo di puntare innanzitutto sulla «trasformazione della coscienza» intesa, a sua volta, quale inaggirabile premessa di ogni risoluzione della problematica ambientale. In particolare, si trattava di acquisire la consapevolezza che la natura non era un Altro dal sé, essendo quest’ultimo una vera e propria «parte integrante di un sistema di vita più ampio»[14].

Dal canto suo, pur riconoscendole una certa attenzione ai problemi del soggetto, Light fa rientrare la Social Ecology nel più ampio quadro di un «materialismo ambientale», il quale, ben distinto da una qualsivoglia «ontologia materialista», era dedito prioritariamente a indagare le «condizioni materiali» del «cambiamento ambientale». Evidentemente questa prospettiva rivolgeva una maggiore attenzione al problema del «chi possiede e controlla i processi tecnologici, usati per stimolare la crescita economica, espandere i mercati e consumare le risorse naturali»; premessa teoretica questa che, stando allo studioso, giungeva a un’indicazione di politica ecologica orientata a una complessiva riorganizzazione della società – magari da realizzarsi secondo modalità diverse da quelle auspicate dall’«anarchismo di Bookchin»[15].

Un’opposizione filosofica tra ontologia e materialismo: questa, dunque, la vera natura celata nel dibattito tra i due movimenti.

Ma, si chiedeva Light, a fronte dello sterile conflitto in cui erano bloccate le due posizioni, non sarebbe stato possibile individuare una terza teoria che, pur condividendo i fondamenti materialistici della Social Ecology, fosse in grado di sostenere allo stesso tempo l’indicazione ontologica relativa a una profonda trasformazione delle coscienze dei singoli?

Certamente – ecco la sua risposta – il pensiero di Herbert Marcuse poteva essere d’aiuto a riguardo: vera e propria «figura ponte tra materialisti ambientali e ontologisti ambientali», la riflessione del francofortese, poteva pertanto fungere anche da «possibile ponte tra ‘ecologisti del profondo’ ed ‘ecologisti sociali’»[16].

In proposito, di particolare utilità risultava l’idea marcusiana della «natura come soggetto», soprattutto grazie al suo ulteriore sviluppo in direzione di «una soggettività rivoluzionaria condivisa tra uomini e natura»[17]. La doppia prospettiva qui presente, infatti, rendeva l’opera del pensatore di Berlino capace di dialogare sia con l’esigenza dell’ontologia ambientale, tutta centrata su una «concezione non-antropocentrica»[18] della natura, sia con la Social Ecology: per quanto «la concezione ontologica di Marcuse della soggettività della natura sia assolutamente necessaria per la sua visione di un futuro migliore in termini ambientali» – proseguiva Light – nella «teoria critica le trasformazioni delle condizioni materiali della società causano ulteriori trasformazioni nella coscienza individuale che, a loro volta, portano altri cambiamenti in quelle stesse condizioni materiali»[19]. Insomma, grazie al suo «fondamentale pluralismo», la concezione del francofortese era in grado di dare suggerimenti a entrambe le categorie generali della teoria ecologica; in altre parole, si mostrava utile tanto a coloro che prediligevano «un’ecologia politica forte», quanto a chi imboccava la direzione di una più sobria «visione della molteplicità di cambiamenti che dovrebbero avvenire al fine di farci procedere verso una società veramente sostenibile».

Così, conclude Light, la teoria marcusiana può essere sviluppata non solo in senso rivoluzionario, ma anche in senso giuridico-normativo; sarebbe a dire ispirando un’«etica ambientalista non-antropocentrica»[20] fondata sul riconoscimento della soggettività alla natura, portatrice, a sua volta, di diritti propri e di obblighi nei suoi confronti.

Tuttavia, come spesso accade, la vicenda prese una piega nient’affatto semplice.

Innanzitutto, è bene ricordare che fu lo stesso Bookchin a opporre una prima resistenza alla proposta di Light.

Certo, stando alla sua testimonianza, tra gli anni Sessanta e Settanta, egli incontrò più volte Marcuse, discutendo con lui di politica e del movimento ecologico[21], nel comune impegno per una teoria sociale della crisi che prevenisse la «cooptazione»[22] dell’ecologismo da parte del capitalismo green.

Ciononostante, le differenze non tardarono a farsi sentire: subito dopo la pubblicazione postuma di Ecology and the Critique of Modern Society, sulla rivista Capitalism Nature Socialism, Bookchin si disse contrario ad un revival ecologista di Marcuse: in particolare, lo preoccupava il suo ricorso «sconcertante» alla «mitopoietica e personalistica»[23] teoria delle pulsioni di Freud per indagare le cause della distruzione della natura nel capitalismo avanzato.

Con queste premesse – lo si intuisce – egli rigettò del tutto la proposta di Light. Inoltre, la sovrapponibilità della sua teoria con quella del francofortese lo preoccupava non solo per la presenza, nell’opera di quest’ultimo, della già menzionata teoria freudiana, ma soprattutto per quel “pluralismo” apprezzato da Light, nel quale lo studioso statunitense vedeva piuttosto l’espressione dell’indecisione e dell’incoerenza di un pensatore che, per quanto meritoriamente disponibile a discutere le innovazioni introdotte dalla Nuova Sinistra, era rimasto legato a doppio filo ad una visione ortodossa della società. Senza mezzi termini, egli si diceva del tutto estraneo all’opposizione ontologia/materialismo, in cui riconosceva un ingiustificabile «uso esistenzialistico della parola ontologia», funzionale a ridurre il suo materialismo ad un «determinismo […] indifferente ai fattori soggettivi e ideologici»[24].

Non è una critica da poco, lo si capisce; tant’è che, nonostante la maggiore disponibilità da parte di Naess a «sviluppare il lato materialistico»[25] della Deep Ecology, lo stesso Andrew Light, all’inizio del nuovo millennio, ha definitivamente abbandonato la ricerca di possibili legami tra le due teorie ecologie.

Di più: lo studioso ha finito con lo sconfessare del tutto le sue precedenti posizioni. Secondo l’autore, infatti, tanto la «riforma della società» quanto la «riforma del sé» sono «nozioni utopiche»[26] e non utilizzabili: rispetto alla necessità di trovare risposte pratiche all’emergenza ambientale, un dibattito del genere può valere solo per gli accademici.

A partire da questa premessa, la stessa teoria di Marcuse finisce con l’essere contestata proprio a causa di quel carattere pluralistico che, in precedenza, le era stato riconosciuto: «filosoficamente parlando», spiega ora Light, «non sono convinto che per raggiungere una sostenibilità ambientale sul lungo-periodo sia necessario conferire una soggettività alla natura, tantomeno attribuirle una soggettività rivoluzionaria»[27]. Al contrario: «la natura è indifferente alla rivoluzione e lo sarà sempre» e, pertanto, non vale la pena «spendere così tanto tempo cercando di capire come si debba attuare una rivoluzione come premessa di una riforma della società su basi ecologiche». Su un piano politico, conclude, «non sono persuaso che per raggiunger una sostenibilità ambientale sia necessaria una rottura radicale con l’attuale struttura materiale o con forme di organizzazione politica, come Marcuse e Bookchin ci vorrebbero far pensare».

Dunque, più che una riforma del sé o della società, si tratta di sviluppare un’«etica ambientale pragmatista» che, senza troppi fronzoli, guardi a quanto concretamente si può ottenere con gli strumenti a disposizione, compresi l’antropocentrismo e il mercato. È molto più probabile, ad esempio, che le persone si mobilitino in favore dell’ecologismo sulla base di un qualche «obbligo verso le generazioni umane del futuro»[28], più che sollecitando un presunto senso di riconoscimento della natura come soggetto di diritto.

Così, maturando un profondo «scetticismo verso la teorizzazione utopica»[29], Light finisce con il ritenere superate, insieme alla posizione marcusiana, tanto la Deep quanto la Social Ecology, responsabili anch’esse di una teorizzazione astratta.

È una scelta, non c’è dubbio, rispetto alla quale occorrerebbe forse ricordare che, ad oggi, lungi dall’essersi risolte, le divisioni permangono. Basti pensare, per fare solo un accenno, a come nell’ecologia politica contemporanea, si torni costantemente sulla questione dei rapporti tra trasformazione sociale e trasformazione culturale, dividendosi tra chi valorizza “pratiche prefigurative” di esperienze radicali non necessariamente impegnate in una trasformazione politica della realtà e chi, invece, ritiene quest’ultima un momento ineludibile per giungere ad una società sostenibile.

Trattasi di questioni aperte che, certo, questa breve ricostruzione della ricezione del pensiero di Marcuse in una specifica fase del dibattito ecologico, non ha alcune pretesa di risolvere.

Resta da domandarsi, però, se la liquidazione del pensiero del francofortese, pur con le sue ambiguità e la doppiezza della sua utopia ecologica[30], non sia stata, in fondo, un po’ frettolosa, soprattutto nel dimenticare il fatto che negli ultimi trenta anni le diverse soluzioni pragmatiche hanno permesso un aumento della percentuale di carbonio nell’atmosfera mai visto prima nella storia umana.

 


[1] Sul complesso rapporto tra ecologia e filosofia, rimando all’importante volume di N. Russo, Filosofia ed ecologia. Idee sulla scienza e sulla prassi ecologiche, Guida, Napoli 2000.

[2] Per una ricostruzione più complessiva del dibattito tra le due correnti, rimando a: M. Humphrey, ‘Nature’ in Deep Ecology and Social Ecology: Contesting the core, in «Journal of Political Ideologies», 5, 2, 2000, pp. 247-268; John P. Clark, Dialogue with Arne Naess on Social Ecology and Deep Ecology (1988-1997), in «The Trumpeter», 26, 2, 2010; J. Wirth, Deep Social Ecology, in «The Trumpeter», 37, 1, 2021, pp. 2-21.

[3] H. Marcuse, Ecologia e critica della società moderna, in Id., Marxismo e Nuova Sinistra. Scritti e interventi di Herbert Marcuse, vol. II, tr. it. Manifestolibri, Roma 2007, p. 173.

[4] A. Naess, The Shallow and the Deep, Long Range-Ecology Movement. A Summary, in «Inquiry», 16, 1972, pp. 95-100. Qui e altrove, se non diversamente segnalato, le traduzioni dall’originale inglese sono mie. Per una ricognizione più ampia della posizione di Naess, rimando a N. Witoszek, Arne Naess and the Norwegian Nature Tradition, in «Worldviews», 1, 1, 1997, pp. 57-73.

[5] A. Naess, op. cit., rispettivamente pp. 99, 98 e 95.

[6] Ibid., pp. 95-98.

[7] M. Bookchin, Social Ecology versus Deep Ecology, in «Green Perspectives: Newsletter of the Green Program Project», 4-5, 1987, pp. 3-4. Per una ricognizione sul pensiero di Bookchin, rimando a: S. Best, Murray Bookchin’s Theory of Social Ecology: An Appraisal of “The Ecology of Freedom”, in «Organization & Environment», 11, 3, 1998, pp. 334-353; Janet Biehl, Ecology or Catastrophe: The Life of Murray Bookchin, Oxford University Press, Oxford 2015.

[8] M. Bookchin, op. cit., pp. 9-10.

[9] Ibid., p. 5.

[10] Ibid., pp. 8-9.

[11] Ibid., p. 17.

[12] Ibid., pp. 10-11.

[13] Due, in particolare, i contributi di A. Light, Rereading Bookchin and Marcuse as Environmental Materialists, in «Capitalism Nature Socialism», 4, 1, 1993, pp. 69-98 e Id., Reconsidering Bookchin and Marcuse as Environmental Materialists: Toward an Evolving Social Ecology, in A. Light (ed. by), Social Ecology after Bookchin, Guilford Publications, New York 1998, pp. 343-384.

[14] A. Light, Marcuse’s Deep-Social Ecology and the future of Utopian Environmentalism, in J. Abromeit, W.M. Cobb (ed. by), Herbert Marcuse. A critical Reader, Routledge, London-New York 2004, p. 230.

[15] Ibid., pp. 229-230.

[16] Ibid., p. 231.

[17] Ibid. Cfr. in proposito, H. Marcuse, Counterrevolution and Revolt, Beacon Press, Boston 1972, pp. 74 ss.

[18] A. Light, Marcuse’s Deep-Social Ecology, cit., p. 233.

[19] Ibid., p. 231.

[20] Ibid., pp. 232-233. Relativamente a questa seconda opzione, è bene ricordare l’introduzione dei “diritti della natura” nelle Costituzioni “indigene” dell’Ecuador e della Bolivia. In proposito, cfr. L. Perra, I sistemi di protezione ambientale di Ecuador e Bolivia e l’affermazione dei diritti della natura, Il Sileno, Cosenza 2021.

[21] Cfr. M. Bookchin, Response to Andrew Light’s “Rereading Bookchin and Marcuse As environmentalist Materialists”, in «Capitalism Nature Socialism», 4, 2, 1993, pp. 101-113.

[22] C’è da dire, inoltre, che Marcuse cita esplicitamente Bookchin nel suo capitolo su Natura e Rivoluzione in Conterrevolution and Revolt, op. cit., p. 61, per segnalare il carattere politico che poteva assumere la rivolta della sensibilità.

[23] M. Bookchin, Response to Andrew Light’s, cit., p. 112.

[24] Ibid., pp. 100-101.

[25] A. Light, Marcuse’s Deep-Social Ecology and the future of Utopian Environmentalism, in J. Abromeit, W.M. Cobb (ed. by), Herbert Marcuse. A critical Reader, London-NewYork, Routledge 2004, p. 232.

[26] Ibid., p. 233.

[27] Ibid., p. 234.

[28] Ibid. Sul problema dei “futuri”, cfr. F. Menga, L’emergenza del futuro. I destini del pianeta e le responsabilità del presente, Donzelli, Roma 2021.

[29] A. Light, Marcuse’s Deep-Social Ecology, cit., p. 234.

[30] Cfr., in proposito quanto scrive L. Mandara nella sua Nota introduttiva a Ecologia e rivoluzione di Herbert Marcuse, infra, pp. 262-273.

 

 

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