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Da Matrix a Don’t look up: il realismo come questione etico-politica

Autore


Alfonso Lanzieri

Facoltà Teologica di Napoli

insegna Logica presso la Facoltà Teologica di Napoli (sez. San Luigi) e Filosofia teoretica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Nola-Acerra

Indice


  1. Introduzione
  2. Il reale tra parentesi
  3. Il ritorno alla questione del reale
  4. Il recupero del “mondo” in filosofia della mente
  5. Un nuovo “metodo” 

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S&F_n. 27_2022

Abstract


From Matrix to Don't look up: realism as an ethical-political issue

In recent decades, the topic of “reality” has gradually returned to the forefront of philosophy. On the side of ontology, the discourse around the "New Realism", an expression referring to the return of realism to the specialist debate, has been ongoing for some time. In the field of philosophy of mind, following the same line, the “4E” approach argues that mental does not occur solely in the head, but is also embodied, embedded, enacted, or extended by way of extra-cranial processes and structures. In this article, we want to relate this paradigm shift to two successful films: The Matrix (1999) and Don't Look Up (2021). We will try to show how the comparison between the two films well describes the cultural change that led to the renewed philosophical attention to the theme of the “reality” and its socio-political relevance.

  1. Introduzione

Pochi mesi fa, due film di grande successo sono stati distribuiti al pubblico quasi in contemporanea. Stiamo parlando di Matrix Resurrection e Don’t look up. Il primo è il quarto capitolo della celebre saga fantascientifica in stile cyberpunk, il secondo una satira distopica della società contemporanea. A giudizio di chi scrive, le due opere cinematografiche, se confrontate (in particolare, per quanto riguarda Matrix, facciamo riferimento al primo episodio della saga), possono rispecchiare, con buona approssimazione, il percorso di una certa parte della nostra cultura (in particolare ci riferiamo al dibattito filosofico) degli ultimi due decenni.

L’idea di partenza di Matrix (il primo film è del 1999) è nota a tutti: l’Intelligenza Artificiale, resasi indipendente dall’uomo e a questi ostile, muove guerra alla razza umana e alla fine riesce a schiavizzarla, imprigionandola in una “neurosimulazione interattiva”, chiamata appunto Matrix, grazie alla quale gli uomini sognano di star vivendo la loro vita normale, quando in realtà giacciono a miliardi in uno stato d’incoscienza, mentre fuori il mondo è ridotto a un ammasso di macerie e l’energia del loro organismo è utilizzata dalle macchine per sopravvivere. Il film si basa su un’ipotesi, a metà tra le neuroscienze e la filosofia, assai seducente, vale a dire l’idea che la nostra coscienza – l’esperienza in prima persona che abbiamo del mondo – sia nient’altro che il prodotto dei nostri neuroni. «Che vuol dire reale? – chiede Morpheus a Neo in un dialogo del film – Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello». Per Morpheus, insomma, la realtà sarebbe un’allucinazione vera. Quest’idea, come proveremo a dire meglio a breve, si avvicina a una certa posizione sulla natura della nostra coscienza, che nell’ambito della filosofia della mente può essere associata alle teorie “internaliste”. Secondo l’internalismo infatti – schematizzando un po’ il discorso ̶  la coscienza è ciò che accade “dentro la testa”.

In Don’t look up, invece, lo scenario è in un certo senso contrario. Un asteroide si avvicina minacciosamente alla Terra, ma qui si apre un tragicomico dibattito sull’esistenza o meno del corpo celeste. L’umanità rischia la propria rovina non perché vive confinata e incosciente in un mondo fittizio, ma perché una spirale di crescente infodemia, scatenata da un intreccio irresponsabile e delirante tra potere politico e mediatico, impedisce la presa d’atto dei fatti. In altri termini, in Matrix le nostre percezioni sono false, perché falso è il mondo in cui crediamo di trovarci; nel secondo caso, invece, il problema è proprio la mancanza di contatto con la verità della nostra percezione. Don’t look up, allora, ripropone anzitutto il problema della realtà e della sua importanza etico-politica. Questo ci sembra in linea con la nuova attualità del “realismo” che si può registrare nell’ambito del dibattito filosofico e della quale si darà conto a breve. Inoltre, l’intera impostazione del film è un invito a spostare la nostra attenzione da ciò che è dentro la nostra mente a ciò dentro cui è la nostra mente: da uno sguardo internalista a uno esternalista. Con quest’ultimo termine ci si riferisce a un’impostazione della filosofia della mente che, negli ultimi anni, ha sempre più criticato l’internalismo nel suo assunto teoretico di fondo: per comprendere il fenomeno della coscienza, bisogna guardare all’interazione tra soggetto e mondo. La coscienza non è ciò che accade dentro la testa, ma ciò che scaturisce dall’interazione tra individuo e ambiente.

A questo punto, allora, dovrebbero essere chiari i termini del discorso. A nostro avviso, gli ultimi decenni del dibattito filosofico sono stati caratterizzati dal passaggio da una egemonia dell’antirealismo a una del realismo, e dall’internalismo all’esternalismo: questi due cambi d’orizzonte (che, lo ripetiamo, ora assumiamo come dati ma a breve tenteremo di giustificare tale assunto) vanno letti sinotticamente e gerarchicamente. Si tratta di un unico movimento di riscoperta del reale – dopo l’enfasi antirealista della cosiddetta età postmoderna – rispetto al quale il passaggio dall’egemonia dell’internalismo a quella dell’esternalismo, in filosofia della mente, rappresenta, pur nella specificità dei percorsi, un sott’insieme teoretico o, se così possiamo esprimerci, un’espressione “regionale”. Tale passaggio, se è stato correttamente rilevato, va altresì indagato nelle sue peculiarità e nelle sue criticità. Abbiamo così anticipato, in modo compendiato e generale, la tesi di fondo che intendiamo presentare e i passi argomentativi che seguiranno. Si tratta adesso di ampliare e tentare di fondare le affermazioni fin qui fatte.

 

 

  1. Il reale tra parentesi

Da qualche anno la questione del realismo è tornata al centro del dibattito filosofico, proprio quando sembrava essere stata definitivamente accantonata, perlomeno dall’orientamento mainstream. Nel secolo scorso, infatti, soprattutto dal secondo dopoguerra in avanti, la koinè filosofica dominata dalla decostruzione e dalla dismissione della metafisica, all’ombra di Nietzsche e Heidegger, aveva marginalizzato in maniera decisa la nozione di “verità oggettiva”. Come ha osservato Mario De Caro, insomma, «negli ultimi decenni del Novecento, la gran parte dei filosofi non dava molto credito al concetto di realtà. Di conseguenza, le filosofie che si incentrano su questo concetto – ossia le varie forme di realismo – erano piuttosto impopolari tanto nel mondo filosofico analitico quanto in quello continentale»[1].

A quanti ancora si ostinavano a utilizzarla in senso forte, era riservata l’accusa più pesante che si possa rivolgere a un filosofo: l’ingenuità. La filosofia, infatti, nasce sulla promessa di superamento dello sguardo ingenuo, che è proprio della doxa, sulla realtà. Il filosofo ingenuo è dunque in realtà il non-filosofo, è colui per il quale la filosofia non è ancora iniziata. Tale pesante rimprovero è stato rivolto a chi, nonostante la scoperta moderna della “soggettività del mondo” ― sancita nel modo speculativamente più consapevole dalla rivoluzione copernicana kantiana ― ha continuato a non praticare quella indispensabile purificazione dello sguardo «che sola permette di liberarlo dai pregiudizi che impediscono di vedere correttamente il mondo, il più radicato dei quali è senz’altro la credenza – detta appunto, “ingenua” o “naturale” – in un reale che sussisterebbe in se stesso e che la conoscenza potrebbe attingere»[2]. Come poter ancora credere nell’esistenza di un mondo disponibile al rispecchiamento di un giudizio adeguato allo stato di cose, se l’esperienza può essere compresa radicitus solo in quanto co-appartenenza insuperabile di soggetto e oggetto? In linea con questa postura di sguardo, Heidegger ha potuto affermare che

diciamo troppo poco dell’essere in sé stesso quando, dicendo “l’essere”, lasciamo fuori il suo essere-presente all’uomo, misconoscendo così che quest’ultimo entra esso stesso a costituire l’“essere”. Anche dell’uomo diciamo sempre troppo poco quando, dicendo l’“essere” (non l’essere dell’uomo), poniamo l’uomo per sé stesso e solo in un secondo tempo lo mettiamo in relazione con l’“essere”[3].

Tale concezione potrebbe avere origini relativamente lontane. Secondo Gianni Vattimo, infatti, il discorso condotto in Essere e tempo può essere letto come la storicizzazione dell’apriori di Kant, il quale, a suo tempo, aveva già sbarrato la strada verso un possibile raggiungimento della verità oggettiva, intesa cioè come ciò che è colto nella sua indipendenza dall’attività costruttiva della soggettività trascendentale: «il mondo è fenomeno, cioè un ordine di cose che il soggetto entra attivamente a costituire. In Kant, tuttavia, c’era ancora l’idea che le strutture a priori del soggetto fossero uguali in tutti gli esseri razionali finiti. Nel Novecento, dopo Heidegger, queste strutture vengono riconosciute nella loro radicale storicità»[4]. In sostanza, stabilita l’intrascendibilità della correlazione soggetto-oggetto, la quale per Meilassoux sarebbe «la nozione centrale della filosofia moderna»[5], la contemporaneità ha affermato con sempre maggior forza l’idea secondo cui noi abbiamo accesso solo, appunto, alla correlazione del pensiero e dell’essere, e in nessun caso all’essere nella sua inseità. La possibilità di attingere la cosa in sé (potremmo dire la “cosa senza me”), ab-soluta, non viziata cioè dal suo rapporto alla soggettività finita, sarebbe così inesorabilmente perduta: «Il sogno del realista è che le cose parlino da sole, senza la nostra mediazione. Ma questo, lo sappiamo, non è un sogno, è un’illusione. […] Il problema è quella cosa in sé – cioè appunto senza di noi – che da Kant in avanti turba i sogni di ogni realista»[6]. Da qui in poi, il pensiero filosofico potrà dedicarsi solo a pensare la correlazione più originaria, non a cogliere l’ente in sé, impossibile da sciogliere dal suo riferimento all’osservatore[7]. In forza delle premesse fino ad ora esposte, in forma ovviamente molto schematica, il pensiero del secondo ‘900 è stato caratterizzato, almeno negli esponenti e nelle correnti più note, da una inclinazione decisamente antirealista: non c’è un mondo indipendente dai nostri schemi conoscitivi e se esiste non è attingibile in sé stesso. Non sorprende, dunque, che uno dei filosofi della mente contemporanei più importanti, John Heil, descrivesse così il panorama filosofico di fine anni ‘80: «Gli scritti antirealisti soverchiano per numero e densità una produzione realista stabile ma relativamente modesta […] (Solo) l’Australia, isolata ed evolutivamente marginale, è rimasta roccaforte di realisti e marsupiali»[8].

 

  1. Il ritorno alla questione del reale

Come anticipato nell’introduzione, allo specifico Zeitgeist antirealista, ha fatto seguito un ritorno al realismo: «Come il fantasma del Commendatore – che nell’ultimo atto del Don Giovanni fa la sua inesorabile comparsa a rammendare verità che non si possono obliare – negli ultimi anni la realtà è tornata e si è saldamente ricollocata al centro della scena filosofica»[9]. In tale orizzonte, l’espressione Nuovo Realismo è diventata alquanto diffusa in anni recenti, stando a indicare proprio una generale tendenza del pensiero filosofico internazionale alla riproposizione del tema del realismo[10]. I nomi e gli indirizzi sono i più disparati: si va dal cosiddetto realismo speculativo di Quentin Meillassoux, alla proposta dell’ontologia “iperrealista” di Markus Gabriel[11], passando per altri nomi significativi, quali ad esempio Tristan Garcia, Graham Harman, Peter Gratton e Lee Braver. In Italia, com’è noto, il Nuovo Realismo è legato al nome del filosofo torinese Maurizio Ferraris. A partire dal suo Manifesto del nuovo realismo[12], il pensatore italiano ha inteso ridiscutere i “dogmi” indiscutibili del pensiero postmoderno: il primo, la realtà non è altro che una costruzione storico-sociale illimitatamente interpretabile; il secondo, la verità è una nozione tanto inutile quanto dannosa, in nome della quale sono state giustificate violenze ed esclusivismi. A essa bisognerebbe preferire la solidarietà. «Il pendolo del pensiero, che nel Novecento inclinava verso l'antirealismo – spiega Ferraris – nelle sue varie versioni (ermeneutica, postmodernismo, “svolta linguistica” ecc.), con il tornante del secolo si era spostato verso il realismo (nei suoi tanti aspetti: ontologia, scienze cognitive, estetica come teoria della percezione)»[13]. È significativo, a nostro avviso, il riferimento alle scienze cognitive e all’estetica come teoria della percezione: come vedremo a breve, infatti, e come abbiamo anticipato nell’introduzione, nell’ambito della filosofia della mente (che certo non coincide con quello delle scienze cognitive ma si costituisce in stretto dialogo con esso) proprio la riscoperta del “mondo” ha rappresentato il filo rosso dell’evoluzione della ricerca degli ultimi anni. Nella sua analisi, Ferraris sostiene che il pensiero postmoderno sia retto, a suo dire, da un ponteggio fatto di tre grandi assi teoriche, che chiama ironizzazione, desublimazione e deoggettivizzazione, ma è nella critica a quest’ultima nozione, definita di «rovinosa centralità»[14], che il filosofo torinese concentra i cardini della sua contestazione: «se cerchiamo la ragion sufficiente e il motore politico della ironizzazione e della desublimazione troviamo la deoggettivizzazione, l’idea che l’oggettività, la realtà e la verità siano un male»[15]. La deoggettivizzazione non è altro che l’assunzione teorica del celebre stigma nietzschiano: “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”. Il problema, sostiene Ferraris, è che, diversamente da quanto capitato in precedenza nella storia, quella Weltanschauung che risponde al nome di postmodernità ha trovato, oggi, una piena realizzazione politica e sociale. Sulle prime – argomenta il filosofo torinese – la cancellazione della verità oggettiva, la frammentazione del reale nel gioco decostruttivo e ricostruttivo delle infinite narrazioni dei soggetti, è sembrato l’avvio promettente di una liberazione, che però non si è realizzata.

Il “divenir favola” del “mondo vero” non c’è stato, non si è vista la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (si credeva negli anni Settanta del secolo scorso) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma l’esito è stato il populismo mediatico, un sistema nel quale (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Nei telegiornali e nei talk show si è assistito al regno del “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”, che – con quello che purtroppo è un fatto, non una interpretazione – ha mostrato il suo significato autentico: “La ragione del più forte è sempre la migliore”[16].

Ciò che interessa sottolineare di questo brano, per gli scopi del nostro contributo, è la ricaduta politica del tema di cui si sta parlando, messa a nostro avviso correttamente in luce da Ferraris. La questione del reale, in sostanza, non è tema di mera astrattezza epistemologica, ma problema politico[17], nella misura in cui tocca la consistenza e il senso dei fatti del mondo condiviso da una comunità. Il peso politico e sociale dell’argomento è ribadito e ampliato da Ferraris in un’opera più vicina a noi, in cui il concetto di postmodernità viene messo in connessione con quello di postverità[18] (parola dell’anno 2016 secondo l'Oxford Dictionaries), a sua volta intimamente correlato alla enorme questione delle fake news. Scrive difatti Ferraris: «Da dove viene la postverità? Una volta tanto, dalla filosofia. […] la postverità è un frutto, magari degenere, del postmoderno»[19]. Giustificata, si spera, l’affermazione introduttiva del ritorno al “reale” della filosofia contemporanea, spostiamoci ora al campo degli studi sul rapporto mente-cervello.

 

  1. Il recupero del “mondo” in filosofia della mente

Con l’espressione mind-body problem ci si riferisce al problema del rapporto tra le “funzioni cognitive superiori” – o livello mentale dell’esperienza del mondo – e il livello biologico, in particolare il nostro sistema nervoso, alla luce dell’evidenza immediata della correlazione tra i due piani. Negli ultimi decenni, la riflessione che vede occupate la cosiddetta filosofia della mente, le scienze cognitive e le neuroscienze rispetto a questo complesso tema di “confine” – l’“hard problem”, il problema difficile, come l’ha icasticamente definito il filosofo australiano David Chalmers – ha conosciuto un’intensificazione vertiginosa, causata, in buona parte, dall’affinamento delle tecniche di osservazione del cervello (brain imaging), le quali consentono oggi uno studio più accurato dell’organo cerebrale a lavoro rispetto a ieri, mettendo a disposizione degli studiosi una grande mole di dati sperimentali[20].

Come detto in apertura e già ribadito, negli ultimi decenni, le ricerche in quest’ambito hanno subito un certo spostamento d’asse teorico, che possiamo riassumere come cambiamento dalla scienza cognitiva classica (SCC) alla nuova scienza cognitiva (NSC). Il programma di ricerca della versione “classica” della scienza cognitiva (SCC), sviluppatasi tra gli anni ‘50 e ‘80 del Novecento, era fondato sulla convinzione che fosse possibile studiare i processi cognitivi considerandoli processi di elaborazione operati su rappresentazioni, seguendo il filo di un’identificazione più o meno spinta tra apparato cognitivo umano e calcolatore digitale[21]. Date queste premesse, per gli scienziati cognitivi di tale indirizzo, è possibile tracciare i confini della cognizione in modo non dissimile da come un informatico traccerebbe quelli delle operazioni di calcolo di un elaboratore, vale a dire facendolo passare sui punti di interfaccia tra la macchina e l'elemento mondo[22]. Susan Hurley, tra le prime voci critiche dell’approccio internalista, ne ha descritto in modo chiaro l’assunto teorico di base: «Se la percezione è l’input che va dal mondo alla mente e l'azione è l'output che va dalla mente al mondo, allora la mente, in quanto distinta dal mondo, è ciò verso cui l'input si dirige e da cui l'output proviene. Quindi, nonostante la rete di relazioni causali tra organismi e ambienti, supponiamo che la mente debba essere in un luogo separato, all'interno di un qualche confine che la distingue dal mondo»[23].

Negli ultimi anni si è potuto registrando, invece, un cambiamento di paradigma. Il SCC, infatti, ha subito nel tempo diverse critiche principalmente a motivo del suo approccio internalista, orientato cioè a considerare la mente come sistema chiuso, sostanzialmente strumento d’elaborazione-dati separato dall’ambiente circostante. Per il modello esplicativo internalista, in altre parole – schematizziamo un po’ il discorso – “la mente è ciò che accade dentro la testa”. L’alternativa è oggi rappresentata dal modello esternalista. Questo, più che un movimento di ricerca omogeneo, definisce un orizzonte comune a diversi programmi di ricerca, tutti accomunati però da un medesimo assunto teorico di fondo: l’interazione continua tra agente e ambiente riveste un ruolo costitutivo[24] per l’emergenza della nostra esperienza mentale. Potremmo riassumere la questione centrale della prospettiva esternalista con la domanda «dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?»[25], quesito chiave di un celebre articolo di Andy Clark e David Chalmers, nel quale presentavano la teoria della Mente estesa. Se per l’internalismo i confini della mente sono, grossomodo, i confini della scatola cranica, l’esternalismo immagina, con differenti livelli di radicalità e sfumature, che la mente sia più estesa del sistema nervoso. In tale linea, il paragone computer-cervello viene respinto sempre più spesso, in favore di un orientamento di ricerca che è stato anche definito 4E cognitive science, espressione che sta ad indicare una scienza cognitiva per la quale è indispensabile considerare la mente secondo le seguenti quattro caratteristiche: embodied, vale a dire incarnata, poiché i processi cognitivi sono distribuiti, e anche fisicamente implementati, sullo stesso substrato neurale responsabile della percezione e dell’azione; enacted, in quanto i processi cognitivi sono il portato dell’interazione dinamica tra un soggetto agente e l’ambiente; embedded, termine col quale si fa riferimento al carattere radicalmente situato dei processi cognitivi (ambiente naturale, storico, sociale e culturale); extended, poiché i processi cognitivi non si consumano “dentro la testa”, ma si estendono al di là dei confini della nostra scatola cranica, in quanto in una certa misura scaricabili su supporti tecnologici esterni, cui riconoscere un ruolo attivo nello sviluppo del nostro pensiero[26].

Questo cambio di prospettiva è stato naturalmente favorito da acquisizioni di dati sperimentali che hanno portato gli studiosi a riformare il paradigma euristico precedentemente adottato, in particolare rivalutando il ruolo del corpo. Il modello Embodied cognition, ad esempio, sostiene che la gran parte dei processi cognitivi avvenga mediante i sistemi di controllo del corpo. Ciò grazie al grande materiale sperimentale di supporto. La scoperta dei cosiddetti neuroni canonici, ad esempio, ha mostrato come una classe di neuroni risponda all’osservazione di oggetti le cui caratteristiche fisiche (forma, grandezza) sono intimamente correlate con il tipo d’azione “codificato” da quegli stessi neuroni. In altri termini, l’osservazione di un oggetto, pur in un contesto che con esso non prevede alcuna interazione attiva, determina l’attivazione del programma motorio che s’impiegherebbe se si volesse interagire con esso. Vedere un oggetto e riconoscerne la forma, in altre parole identificarlo, significa evocare automaticamente cosa faremmo con quell’oggetto[27].

Su tali basi, uno dei filosofi della mente contemporanei più influenti, Alva Noë, ha sostenuto che il locus fisico dell’esperienza mentale, il veicolo fisico della sua realizzazione, non è certamente il solo cervello, se isolatamente considerato, ma coincide col processo in cui l’attività neurale è incorporata nelle dinamiche senso-motorie che coinvolgono il soggetto e lo spazio che lo circonda: «Ciò che determina il carattere della nostra esperienza – ovvero quel che rende la nostra esperienza proprio quel tipo di esperienza che è – non è l’attività neurale nel nostro cervello; piuttosto, è la relazione dinamica che intratteniamo con gli oggetti»[28]. Niente di più lontano dall’ipotesi sostenuta da un certo neurocentrismo, proprio della SCC, che fa del cervello, con sfumature diverse a seconda degli autori, l’occorrente esclusivo per l’emergere della nostra esperienza cosciente. Non basta forse, sentenzia il neurocentrismo, una semplice stimolazione diretta delle cellule nervose per causare una certa corrispondenza nell’esperienza soggettiva? Questa banale operazione da laboratorio non è sufficiente a dimostrare che il “costruttore” del mondo esperito dai soggetti è il cervello? Noë rifiuta questa impostazione, usando quale campione significativo della tesi da decostruire, le posizioni dello scienziato Francis Crick:

L’assunzione posta alla base di buona parte dell’indagine scientifica dedicata alla coscienza consiste nel considerare quest’ultima alla stregua di qualsiasi altro fenomeno neuroscientifico. Essa accade dentro di noi, nel cervello. […] Francis Crick, vincitore del premio Nobel e co-scopritore della struttura della molecola di DNA, ha affermato (in un libro dal titolo The Astonishing Hypothesis, letteralmente “L’ipotesi sorprendente”, reso in Italiano con La scienza e l’anima, ndr): “Tu, la tua gioia e i tuoi dolori, i tuoi ricordi e i tuoi progetti, il tuo senso di identità personale e libero arbitrio siete di fatto nient’altro che i comportamenti di un vasto sistema costituito da cellule nervose e dalle molecole che le compongono”[29].

A differenza della posizione ora riportata, per Noë, invece – che stiamo citando quale voce significativa tra le tante possibili del panorama dell’esternalismo – il cervello e il sistema nervoso, nella misura in cui rendono possibile la consapevolezza dell’ambiente per un soggetto, non hanno il compito di generare immagini interne elaborando la molteplicità dei dati sensibili; piuttosto, favoriscono, insieme al nostro corpo, l’interazione dinamica con l’ambiente: gli stati di coscienza o mentali sono la risultante dell’infinita e continua declinazione dell’essere nel mondo del soggetto cognitivo. Nel quadro dipinto dal filosofo americano, dunque, l’esperienza del soggetto è l’infinita riconfigurazione a carattere pragmatico del mondo[30]. Sulla base di quanto detto fin qui, allora (che naturalmente non ha potuto che essere una descrizione compendiata del complesso panorama cui ci si sta richiamando), possiamo sintetizzare la differenza fondamentale di approccio teorico tra la SCC e la NSC nel modo seguente: per la SCC la relazione su cui concentrare la ricerca è quella tra la mente e il cervello; per la NSC la relazione da indagare è quella tra l’esperienza mentale e il mondo, includendo in quest’ultimo il corpo-in-azione del soggetto. Come già anticipato, il panorama è molto variegato, e si va da forme di esternalismo soft, che guardano a ciò che è esterno al sistema nervoso come funzionalmente costitutivo per il sorgere dell’esperienza, fino a proposte hard o radicali, che concepiscono la mente come ontologicamente estesa o distribuita su tutti i “supporti” del processo cognitivo[31].

 

  1. Un nuovo “metodo”

Abbiamo potuto vedere fin ad ora, speriamo con la dovuta chiarezza e fondatezza, come sul piano più generale, il tema del “realismo” sia tornato di moda in filosofia  ̶  e con esso l’importanza del “mondo” quale fondo inemendabile del gioco delle interpretazioni e delle prospettive – e, quasi contemporaneamente, anche nell’ambito degli studi sulla mente, a poco a poco, il “mondo” sia tornato protagonista: la metafora della mente-computer è stata sempre più criticata in favore di un modello maggiormente “integrato” mente-ambiente, teso a valorizzare l’interazione tra soggetto e mondo circostante in ordine alla spiegazione dell’esperienza mentale. Si tratta ora di riprendere il nostro iniziale riferimento a Matrix e a Don’t look up per provare a giustificarne la citazione in questa sede.

Orbene, l’ipotesi di partenza della quadrilogia Matrix era basata proprio su un’idea di coscienza inside-out (“la coscienza è ciò che accade dentro la scatola cranica”). Ricordiamo ancora una volta le parole che Morpheus rivolge a Neo, in una delle scene cult del film del 1999: «Che vuol dire reale? Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello». Si tratta, in fondo, dell’ipotesi di Francis Crick criticamente citata da Noë[32]. Come abbiamo visto, però, tale prospettiva oggi risulta più difficile da sostenere. Ancora Alva Noë ha potuto sostenere che «l’idea secondo la quale noi saremmo il nostro cervello non è qualcosa che gli scienziati hanno imparato; si tratta, piuttosto, di un pregiudizio che gli scienziati si portano da casa fin dentro i laboratori. Passiamo la nostra vita con un corpo, all’interno di un ambiente insieme ad altri. Non siamo semplici recipienti in balìa di influenze esterne; siamo dinamicamente accoppiati con il mondo, non siamo separati da esso»[33]. Ora, se nella distopia di Matrix “svegliarsi” vuol dire rendersi conto del carattere fittizio della realtà che abbiamo sotto il nostro naso, in Don’t look up, di contro, il percorso da compiere è quasi opposto: qui sono proprio i fatti immediati che vanno assolutamente recuperati. La vicenda inscenata dal film, infatti, parla di una enorme cometa che viaggia verso la Terra e minaccia di distruggerla. Basterebbe alzare lo sguardo e vedere. Eppure un dedalo di interessi tanto egoistici quanto demenziali, che intrecciano economia, politica e comunicazione, si attorcigliano su sé stessi in un rovinoso collasso epistemologico (e sociale), conducendo l’umanità, caratterizzata da una buona dose di isteria e narcisismo, alla catastrofe finale. Se in Matrix, dunque, l’umanità era intrappolata dentro una realtà virtuale fabbricata da altri (le macchine), in Don’t look up l’uomo stesso è il genio maligno che si autoreclude in una prigione in cui le più elementari datità sensoriali – perfino una enorme cometa – diventano invisibili. Se l’uomo in Matrix non doveva fidarsi dei propri sensi, in Don’t look up il dramma descritto dalla storia consiste invece proprio nel fatto che le persone hanno “perso i sensi”, hanno cioè perduto la connessione col mondo, la relazione con l’insieme dei fatti e la loro dura indipendenza rispetto ai discorsi.

A nostro avviso, è possibile descrivere la mutazione di sguardo intercorsa tra i due film, distanziati di circa vent’anni, come un passaggio, lato sensu, dall’internalismo all’esternalismo: in Matrix lo sguardo è alquanto neurocentrico (il cervello è concepito come una magic box che costruisce la realtà); in Don’t look up, invece, l’attenzione cade sul rapporto tra percezione e mondo, sulla correttezza o scorrettezza di tale rapporto, e sull’inemendabilità della realtà. Matrix era sostanzialmente un film costruttivista (anche se non riesce a essere sempre coerente con tale impostazione), Don’t look up è realista, nel senso proprio del realismo filosofico: l’umanità vive una realtà dotata di un certo ordine indipendente dall’intelletto. Il punto fondamentale su cui il film consapevolmente o inconsapevolmente conduce a riflettere, è la posta in gioco sociopolitica o eticopolitica del riconoscimento del reale. Detto in altri termini: pur se non separabile da contesti, narrazioni, influenze di potere, limiti del linguaggio ecc., non si può rinunciare al reale e alle sue esigenze, pena il disastro. Ciò ci sembra alquanto in linea con le già sottolineate preoccupazioni di carattere politico (è chiaro che tale termine va inteso in accezione larga, come tutto ciò che ha a che fare col nostro vivere associato) del nuovo realismo, espresse, tra gli altri, da Maurizio Ferraris. Le parole del filosofo italiano ci consentono di reperire alcuni dei motivi che, a parere di chi scrive, hanno causato o perlomeno favorito il “recupero del mondo” osservabile nel dibattito contemporaneo (filosofico e non), e simbolicamente condensato nel passaggio tra due film di cui si sta parlando. Don’t look up, infatti, risente del tema delle fake news e del problema della verità nella comunicazione massmediatica. Di più ancora, riflette il clima di generale sfiducia e sospetto verso fonti o istituzioni ufficiali, fenomeno che a sua volta aiuta la radicalizzazione dell’opinione pubblica e la disinformazione[34]. Tali questioni, naturalmente, esistevano già nell’anno di nascita di Matrix, ma non si ponevano con la stessa drammatica urgenza di oggi. Così, dopo un lungo giro, la questioni della verità e della realtà – considerate quasi “reazionarie” in certi ambienti postmoderni più radicali – sono tornate centrali, diremmo pressanti. Descrivendo lo stato attuale delle nostre democrazie in ordine a questi problemi, la frammentazione e la polarizzazione del loro dibattito, il filosofo Raffaele Alberto Ventura ha asserito che

oggi è come se tutti avessero gli occhiali di John Nada, il protagonista del film [Essi vivono di John Carpenter], o ingoiato la pillola rossa di Matrix. Per alcuni coincide con un libro sacro, un blog alla moda, un predicatore televisivo, ognuno con la sua narrazione alternativa capace di riempire i vuoti di senso lasciati dal sapere detto “legittimo” e considerato di fatto sempre meno “legittimo”. Non sappiamo se quello che abbiamo visto sotto la superficie delle cose sia vero o falso, sappiamo soltanto che fornisce una spiegazione a una realtà sempre più confusa[35].

Se quanto detto fin qui è fondato, possiamo sostenere che – e questo è il punto di portata propriamente filosofica – nell’èra della cosiddetta post-verità, si ravviva l’esigenza di ritrovare il rapporto tra la ragione, intesa come strumento conoscitivo, e le ragioni, intese come il senso e la verità dei fenomeni. Nei periodi storici di epocale transizione, e non v’è dubbio che gli anni in cui viviamo siano tali, tale rapporto si spezza. Ora occorre trovarne uno nuovo. Si ripropone così l’esigenza di un nuovo metodo, vale a dire di una rinnovata via (odos, strada) di accesso alle cose. Le cose ci circondano, ci assediano da ogni lato, eppure dobbiamo aprirci un varco verso di esse elaborando un metodo, altrimenti restano come invisibili: la nostra esperienza sarà una kantiana intuizione cieca, come quella dei personaggi di Don’t look up, incapaci di vedere ciò che erano perfettamente in grado di guardare.

 


[1] M. De Caro, Realtà, Bollati Boringhieri, Torino 2020 (edizione kindle), p. 10.

[2] R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017, p. 125

[3] M. Heidegger, Che cosa significa pensare? (1952), tr. it. Sugarco, Milano 1971, vol. I, p. 38.

[4] G. Vattimo, Della realtà, Garzanti, Milano 2012, p. 86.

[5] Q. Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza (2012), tr. it. Mimesis, Milano 2012, p. 8.

[6] F. Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Bolinghieri, Torino 2018, p. 18

[7] Cfr. Q. Meillassoux, op. cit., p. 12.

[8] J. Heil, Recent Work in Realism and Antirealism, in «Philosophical Books», 30, 2, 1989, pp. 65-73, qui p. 65.

[9] M. De Caro, op. cit., p. 12.

[10] Si tratta di un panorama unificato da una condivisa postura teoretica realista, ma vario quanto a nomi e percorsi. Per uno sguardo generale cfr. S. De Sanctis (a cura di), Nuovi realismi, Bompiani, Milano 2017.

[11] A tal proposito cfr. il già citato Q. Meillassoux, op. cit. e M. Gabriel, Il senso dell’esistenza, Carocci, Roma 2012. Citiamo questi due lavori – rispettivamente francese e tedesco in originale – perché, a nostro avviso, sono tra i più influenti pubblicati nell’ultimo decennio all’estero (area continentale) sul tema in oggetto.

[12] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.

[13] Ibid., p. IX.

[14] Ibid.

[15] Ibid., p. 20.

[16] Ibid., p. 6.

[17] L’opposizione appena segnalata è da rilevarsi entro il campo del senso comune. La convinzione di chi scrive, infatti, è che non si dia alcuna riflessione filosofica seria che non sia in rapporto con la concretezza della vita e delle sue trame intersoggettive, purché tale “concretezza” non sia ridotta a banale praticità.

[18] Il Vocabolario Treccani la definisce: «Argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende ad essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica».

[19] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna 2017, p. 19.

[20] Per una buona introduzione generale di carattere storico cfr. S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2011. Si tratta di una seconda edizione aggiornata e ampliata rispetto a quella del 2002.

[21] Cfr. H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia di una rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, Milano 1998.

[22] Cfr. L.A. Shapiro, Embodied Cognition, Routledge, London-New York 2019, p. 28.

[23] S. Huxley, Consciousness in Action, Harward University Press, Cambridge 1998, p. 2. Traduzione mia.

[24] Cfr. M. Di Francesco, G. Piredda, La mente estesa. Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?, Mondadori, Milano 2012, pp. 79-80.

[25] A. Clark, D. Chalmers, The Extended Mind, in «Analisys», 58, 1, 1998, pp. 7-19.

[26] Per questa sintesi sulle caratteristiche della 4E cognitive science cfr. F. Caruana, A. Borghi, Il cervello in azione. Introduzione alle nuove scienze della mente, Il Mulino, Bologna 2016. Per una panoramica più estesa si può vedere il monumentale volume di A. Newen, L. De Bruin, S. Gallagher (a cura di), The Oxford Handbook of 4E Cognition, Oxford University Press, Oxford 2018.

[27] Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, Milano 2006, pp. 35-46. Per approfondire: V. Gallese, L. Fadiga, L. Fogassi, G. Rizzolatti, Action Recognition in the Premotor Cortex, in «Brain», 119, 1996, pp. 593-609; A. Murata, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, V. Raos, G. Rizzolatti, Object Representation in the Ventral Premotor Cortex (Area f5) of the Monkey, in «J. Neurophysiol.», 78, 1997, pp. 2226-2230; V. Gallese V., G. Lakoff, The Brain’s Concepts: The Role of the Sensory-motor System in Reason and Language, in «Cognitive Neuropsychology», 22, 2005, pp. 455-479.

[28] A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza (2010), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 63

[29] Ibid., p. 5.

[30] Cfr. A. Noë, Varieties of presence, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2012.

[31] Più che di esternalismo sarebbe meglio parlare di esternalismi, al plurale, data la varietà degli indirizzi. Per una panoramica si veda ancora A. Newen, L. De Bruin, S. Gallagher (a cura di), op. cit., oppure M.C. Amoretti, La Mente fuori dal Corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale, FrancoAngeli, Milano 2011.

[32] Su tale posizione, che noi definiamo “neurocentrica”, si veda ad esempio P. S. Churchland, L’io come cervello (2013), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.

[33] A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello, cit., p. 215.

[34] Il World Economic Forum nel 2013 ha inserito la disinformazione nella lista delle principali minacce globali. Sul rapporto critico social, comunicazione pubblica e democrazia, si veda W. Quattrociocchi, A. Vicini, Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità, Codice Edizioni, Torino 2018.

[35] R.A. Ventura, La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale, Minimum fax, Roma 2018 (edizione kindle), pp. 6-7.

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