Autore
Indice
- Antropocene come problematizzazione
- Antropocentrismo/postantropocentrismo: quale uscita?
- Antropocene come crisi: questione epistemologica e politica
- Verso un’esperienza allargata
S&F_n. 21_2019
Abstract
The extended Experience. Reflections on the Anthropocene
The debate on the so-called Anthropocene represents the emergence of a problematization that calls into question the whole system of modernity, which is to be understood as a combination of reflective rationality and a capitalist mode of production. The essay intends to analyze the contradictions that arise from the “discovery” of the Anthropocene: that between anthropocentrism and post-anthropocentrism, and that between origin and outcome of modernity. If Latour's studies are important to understand the epistemological status of unfinished modernity, we must go to the material origin of the problem and understand the implications of the capitalist and modern world-ecology. Once the places of the emergency of the problematization have been identified, it is possible to think about an intervention in reality that has at its center the dynamics of the conflict and the determination of an extended experience.
È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo
Vecchio adagio riferibile a Fredric Jameson e/o Slavoj Žižek
- Antropocene come problematizzazione
«Quello di Antropocene», scrive Jason W. Moore, «è diventato il concetto ambientalista più importante, ma anche il più pericoloso, del nostro tempo» e «la sua pericolosità sta nel fatto che proprio mentre mostra con chiarezza i “passaggi di stato” [state shifts] delle nature planetarie esso mistifica anche la loro storia»[1]. Ma di cosa è il nome la parola Antropocene? Senza ripercorrere una storia già molto nota e decisamente alla moda[2] – e che è definita dall’ipotesi dell’ingresso in una nuova era geologica caratterizzata dall’impatto trasformativo (e, va da sé, negativo) dell’anthropos sull’intero sistema-pianeta – è possibile affermare che l’immensa mole di studi che da quel momento ha investito non soltanto la scienza geologica (e quelle che si definiscono “scienze dure”), ma anche e soprattutto le scienze umane e sociali, sia dovuta al fatto che tale parola, a tratti un significante semi-vuoto, abbia avuto la capacità di imporsi come problematizzazione: con questo termine, da noi utilizzato andando anche oltre il senso originario foucaultiano[3], deve intendersi lo studio che permette di comprendere il divenire problema di un qualcosa che, precedentemente invisibile, compare all’improvviso sulla scena del mondo a partire da una molteplicità di luoghi di emergenza. La problematizzazione, intesa in questo senso “forte”, è sempre un modo per fotografare l’emergenza (e, quindi, definire le modalità di apparizione) di una specifica esperienza; una esperienza, nella nostra prospettiva, è sempre determinata da tre istanze: il bios, il logos e il “mondo” – laddove per bios deve intendersi una specifica forma-di-vita (o processo di soggettivazione/assoggettamento) che, nella sua forma di apparizione storicamente determinata, accompagna e determina (ed è determinata dal)l’esperienza della relazionalità con le nature umane ed extraumane e che, per sua stessa costituzione, va al di là della fissità di una natura a-storica, di un’essenza, di una finalità interna nella costituzione del Sé, determinandosi sempre come flusso conscio-inconscio di creazione produttiva e riproduttiva – per lavoro concettuale a partire dal bios, dunque, non deve intendersi né una ricerca sulla sostanza o su una presunta determinazione essenziale, individuata e individuabile, né uno studio su una natura originaria e incontaminata (ma già sempre contaminabile), né tantomeno una rappresentazione di una comune (potente e/o dolorosa) condizione di appartenenza umana o naturale a partire da difettività e/o potenziamenti sempre possibili, ma la semplice idea della relazionalità umana ed extraumana, laddove per bios non deve mai intendersi il Sé individuale, ma sempre un movimento di soggettivazione transindividuale e transpecifico; per logos deve intendersi, invece, lo specifico modo, anch’esso storicamente determinato, che la forma-di-vita umana utilizza per apprendere e comprendere la propria esperienza, attraverso rappresentazioni naturalizzanti e/o culturalizzanti, la cui intenzione è sempre quella di dominare le resistenze del reale – i punti di resistenza del reale risultano essere sempre quelli in cui si concentra la “presa” (“apprensione” o “comprensione”), per cui la loro evidenza è già sempre “nascosta”, e così nella relazione viva tra rappresentazione e resistenza si gioca la dinamica (epistemo)logica della costruzione di un’interpretazione dell’esperienza; per “mondo” occorre intendere la rappresentazione/apparizione della resistenza del “reale”, da intendersi sia come luogo dell’appropriazione tecnica e (epistemo)logica del reale, con il suo portato di cura e/o violenza, dominio, sopraffazione, distruzione, sfruttamento, sia l’unico scenario/sfondo possibile per la messa alla prova dell’esperienza di una forma-di-vita e del suo logos. Per problematizzazione, in questo senso, dobbiamo intendere sia la forma che assume la crisi di uno statuto di relazionalità vitale dell’esperienza (che è sempre congiunzione di un bios, di un logos e di un “mondo”) sia la riflessione su tale emergenza che, da un lato, muove alla ricerca dell’origine del divenire problema di una determinata “cosa”, e, dall’altro, determina questo divenire problema all’interno di una rete le cui fitte maglie sono formate da specifici processi di soggettivazione, “logicizzazione” e apparizione-di-mondi. Il fatto che nessuna di queste tre determinazioni sia quella centrale o quella a partire dalla quale muovano per deduzione le altre sta a significare – nella nostra riflessione – la centralità del momento etico-politico, da intendersi come momento allo stesso tempo di superamento e creazione di una specifica configurazione mediante l’emergenza di un essere-in-comune che riguarda, allo stesso tempo, le forme-di-vita umane ed extraumane, e la loro dialettica interna ed esterna.
Quando Jason W. Moore parla di “mistificazione della storia” da parte di coloro che studiano e utilizzano l’universale Antropocene intende probabilmente sottolineare quello che nella nostra concettualizzazione può essere definito come un lavoro di costruzione di una specifica triangolazione bios-logos-“mondo” che nasconde la reale esperienza storica della relazionalità umana – rilevare una problematizzazione, dal punto di vista della ricerca, significa proprio effettuare questo lavoro di de-mistificazione: e così, riguardo all’Antropocene, al di là se rappresenti la narrazione di una “frattura” o di un “passaggio di stato” metabolico nella relazione uomo/mondo (ambiente)[4], al di là se il cambiamento di scala da forza biologica a forza geologica debba determinare necessariamente un “passaggio di stato” nella narrazione della storia umana[5], il nodo fondamentale resta la determinazione del nesso tra esperienza e storia e la dialettica complessa tra bios, logos e “mondo”.
Dunque: di cosa è problematizzazione l’Antropocene? La risposta potrebbe sembrare piuttosto semplice e immediata: il problema ambientale di sostenibilità ecologica, l’idea che lo sfruttamento del pianeta stia raggiungendo dei limiti “fisiologici” oltre i quali sarà impossibile andare senza incontrare la “fine del mondo”[6]. Ma quali sono i luoghi dell’emergenza di questa nozione così fortunata e così alla moda? La questione è, ovviamente, vastissima e, nell’articolazione di queste brevi note, non si può che cercare di delimitare un possibile percorso piuttosto che identificare delle determinazioni definitive; è possibile innanzitutto affermare come la questione dell’Antropocene segnali una duplice contraddizione: da un lato, infatti, risulta essere centrale il “conflitto” tra antropocentrismo (se si vuole, la grammatica della modernità) e postantropocentrismo (se si vuole, il programmatico esito interno – ma non “uscita” – della modernità) – laddove per contraddizione/conflitto deve intendersi sia lo “scontro” tra le due determinazioni, sia lo scontro interno che ciascuna determinazione svela; dall’altro, risulta essere evidente come la traduzione del primo conflitto in termini di “progetto della modernità” (da intendersi come connubio di razionalità riflessiva e capitalismo) e “esito (catastrofico?) della modernità” (da intendersi come connubio tra proposta inefficace di soluzione e rassegnazione) rappresenti l’esperienza fondamentale della tarda modernità.
Seguendo questa direzione si cercherà dunque di determinare l’esperienza propria (nel senso di “autentica”) dell’Antropocene: in che senso, insomma, all’interno di questa problematizzazione viene messa in discussione la triangolazione di bios, logos e “mondo” che ha definito i confini di “soggettivazione” (bios), “comprensione” (logos) e “vivibilità” (“mondo”) propri della Modernità. Il percorso seguirà, per problemi di spazio e di elaborazione complessiva, esclusivamente e per cenni la scansione della duplice contraddizione segnalata poco sopra: innanzitutto, si cercherà di definire se la relazione antropocentrismo/postantropocentrismo possa essere intesa in senso dialettico – se possa essere, dunque, superata e mantenuta in una determinazione vivente; in secondo luogo, si proverà a capire se il progetto incompiuto della modernità sia in realtà “incompibile” e se questa incompiutezza richiami più le trombe dell’apocalisse o la palingenesi di un mondo nuovo.
- Antropocentrismo/postantropocentrismo: quale uscita?
Una delle caratteristiche della problematizzazione dell’Antropocene è che rende sfumata la distinzione tra antropocentrismo e postantropocentrismo: da un lato, infatti, l’idea che l’anthropos abbia raggiunto un livello di “potenza” e “influenza” tale da determinare le sorti dell’intero sistema-pianeta potrebbe raccontare, seppur in negativo, un’ulteriore grandezza dell’uomo e, in positivo e mediante l’utilizzazione tecnica, la possibilità di fuoriuscire da un vicolo cieco che, comunque, ha prodotto “egli” stesso[7] – si tratta dell’idea che il continuo e “progressivo” sviluppo tecnologico possa “bastare” senza mettere in campo nessun ripensamento né dell’ordine del discorso dominante nella modernità né della governance economico-politica globale; dall’altro, e in contraddizione, l’idea che l’anthropos non è una specie in un certo senso “separata” dal resto del sistema vivente planetario – dunque: nessun eccezionalismo umano – ma che ne faccia parte in maniera immanente e non trascendente, al di là della distinzione tra soggetto e oggetto e natura e cultura – in questo caso, l’esito possibile della crisi planetaria non può che essere la catastrofe o la palingenesi. Questa complessità della rappresentazione dell’anthropos nell’Antropocene richiama da vicino la famosa definizione foucaultiana dell’uomo come allotropo empirico-trascendentale[8]: quello che intendiamo dire è che non ci troviamo assolutamente al di fuori della modernità, ma esattamente all’interno del suo dispositivo determinante.
È possibile, dunque, affermare che noi abitiamo un’era la cui caratteristica è di essere antropocentrica e postantropocentrica allo stesso tempo e sotto il medesimo aspetto, ed è soltanto con la tarda modernità che questa evidenza ha raggiunto il livello di emergenza problematizzante: uno dei protagonisti di questa svolta è sicuramente Foucault, sia quando afferma – dal punto di vista epistemologico – che «una cosa comunque è certa: l’uomo non è il problema più vecchio o costante postosi al sapere umano» e che la sua rappresentazione svanirà «come sull’orlo del mare un volto di sabbia»[9], sia quando sottolinea – dal punto di vista politico – che «uno dei fenomeni fondamentali del XIX secolo sia stato ciò che si potrebbe chiamare la presa in carico della vita da parte del potere […] una presa di potere sull’uomo in quanto essere vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico, o almeno di una tendenza che condurrà verso ciò che si potrebbe chiamare la statalizzazione del biologico»[10]. Il filosofo francese ha posto una piattaforma di problemi che, nella realtà attuale, sembrano ancora agire in profondità e che, per certi versi, hanno trovato un’attualizzazione ancora più estesa: se è vero che il postantropocentrismo è introdotto da quella che possiamo chiamare “politica della vita”[11], laddove per “politica della vita” deve intendersi la specifica gestione capitalistica della forma-di-vita umana, è anche vero che si è fatta sempre più pressante un’idea estesa e allargata di biopolitica, laddove il capitalismo contemporaneo ha sempre più per oggetto non solo lo sfruttamento della specifica vita umana, ma della vita in tutte le sue forme umane ed extraumane – una sorta di zoepolitica negativa[12]. In questo senso, è possibile affermare che la modernità, da intendersi come progetto fondato su una struttura determinata da una razionalità riflessiva e dal modo di produzione capitalistico, abbia avuto, sin dagli albori, un’attitudine alla gestione della vita tout court, al punto che è possibile affermare che la vita è un’invenzione recente del capitale[13] – una certa rappresentazione della vita, ovviamente, un modo di ri-presentare una certa correlazione tra bios, logos e “mondo”. Su questo punto, risulta essere molto puntuale la filosofa Braidotti quando afferma che «l’economia globale è postantropocentrica poiché, infine, raggruppa tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, minacciando con i suoi eccessi la sostenibilità dell’intero nostro pianeta» per cui «l’economia politica del capitalismo biogenetico è postantropocentrica»[14]. Il capitalismo, nella sua forma neoliberista e “biogenetica”, dunque, ha trasformato in merce la forma-di-vita umana (non solo, ovviamente e primariamente, come forza-lavoro, ma anche nella stessa gestione del genoma e nelle questioni riguardanti i possibili “potenziamenti” della natura umana – potenziamenti pensati in chiave di produttività, ovviamente) e ha trasformato in mera “risorsa” (e, poi, anche in merce) la forma-di-vita extraumana (dalla devastazione ambientale connessa all’estrazione di fonti energetiche fino alla manipolazione genetica dei cosiddetti OGM, solo per fare qualche esempio): la differenza tra le prime forme di capitalismo e il capitalismo avanzato della nostra epoca è soltanto di “grado” o “quantità” e non di “natura” o “qualità”, in quanto il modo di produzione capitalistico ha potuto crescere e svilupparsi fino a divenire un’ecologia-mondo soltanto mediante lo sfruttamento congiunto e dialettico di natura umana ed extraumana[15].
A questo punto occorre ritornare alla contraddizione tra antropocentrismo e postantropocentrismo nell’era dell’ecologia-mondo capitalista. Se interpretiamo l’Antropocene in chiave “antropocentrica” ci troviamo dinanzi a un problema e a una soluzione entrambi incentrati sulla figura dell’anthropos, ma questo non può che suscitare un’enorme mole di problemi, su tutti chi sarebbe l’anthropos, il supposto “soggetto” dell’antropocentrismo e dell’Antropocene – la risposta a questa domanda non può che passare attraverso i cultural e postcolonial studies: si tratterebbe dell’ennesima configurazione dell’Uomo bianco e civilizzato, maschio e urbanizzato, che pretende, mistificando, di essere “universale”, per cui la stessa dizione “Antropocene” andrebbe decolonizzata[16]. In questo senso, non può che stupire la posizione di Dipesh Chakrabarty che, soprattutto nello scritto The Climate of History: Four Theses, ha affermato come il cambiamento climatico – e i problemi che propone e le catastrofi che annuncia – rappresenti una soglia fondamentale nella storia umana, la quale, da sempre caratterizzata da conflitti, adesso si troverebbe a dover definire un “racconto” il cui protagonista non può che essere l’uomo come specie: sarebbe la prima volta in cui non ci sarebbe più una scialuppa di salvataggio per nessuno e che quindi l’impegno globale dovrebbe riguardare l’anthropos nella sua interezza al di là delle sue determinazioni differenzialistiche – certo, occorre dire che Chakrabarty non nega il fatto che la crisi ecologica abbia una dimensione di classe e che l’impatto delle sue conseguenze non sia uniforme per tutti, ma il programma di intervento deve muovere da una rinnovata forma di antropocentrismo, fondato su basi chiaramente differenti da quello caratterizzante la modernità[17].
Ma cosa succede se interpretiamo l’Antropocene in chiave “postantropocentrica”? Ci ritroviamo dinanzi alle contraddizioni del capitalismo in generale e del capitalismo biogenetico in particolare: è possibile affermare che il funzionamento stesso del capitalismo sia postantropocentrico, nella misura in cui da un lato produce un’individualizzazione atomistica e deterritorializzata delle differenze (il concetto di “differenza”, in questo contesto, è utilizzato come dispositivo per “dividere” e “governare” – un decentramento del centrismo antropico funzionale alla riproduzione economico-politica del capitale) e dall’altro cerca di gestire l’umano esattamente come l’extraumano, al di là di ogni fondamento ed eccezionalismo antropico, ma semplicemente come modalità di estrazione (o potenziamento) di valore o di risorse.
L’elemento che va sottolineato è che il significante semi-vuoto “Antropocene” riesce a mettere in rilievo questa contraddizione: si tratta di una delle emergenze decisive che hanno sancito la sua fortuna come problematizzazione. In effetti, sembra divenire sempre più chiaro come l’intero impianto della modernità (dall’antropocentrismo al postantropocentrismo) rappresenti una promessa incompiuta: si tratta di una dialettica che nasconde in realtà un’omogeneità di fondo – da un lato l’uomo come soggetto della trasformazione globale e, negli ultimi tempi e a quanto pare, come agente geologico, dall’altro l’uomo e la natura extraumana come oggetto della medesima trasformazione globale. La questione riguarda l’esperienza della tarda modernità: la crisi economica e poi ecologica del XXI secolo rappresenta la crisi-soglia di una specifica connessione storica tra bios, logos e “mondo” che ha definito la grammatica della modernità – un bios duplicato al suo interno in soggetto/oggetto e, allo stesso tempo (e, in maniera funzionale, alla ri-produzione), trascendente/immanente; un logos che, nel momento in cui “comprende” il mondo, lo “prende” sotto il suo dominio, riducendo la natura umana ed extraumana a mera risorsa o produzione di valore, ma che nello stesso tempo idealizza una natura incontaminata (wilderness) come promessa incompiuta (laddove la Modernità è caratterizzata anche dalla dinamica di una promessa che deve compiersi nel ritorno a un passato idealizzato); un “mondo” che rappresenta lo scenario oggettivo (mediante una “messa a distanza” radicale) da cui ricavare nature (umane ed extraumane) a buon mercato[18] ma da cui evincere allo stesso tempo l’eccezionalismo umano. Si tratta di una forma di esperienza assolutamente ristretta e autocontraddittoria, nella misura in cui il bios si trova scisso in soggetto e oggetto e ricomposto poi soltanto in maniera ideologica, dunque politicamente, in cui l’aspetto della contraddizione si gioca tutto sulla relazione dominante/sfruttatore e dominato/sfruttato; il logos risulta essere di volta in volta uno strumento tecnocratico (fin dentro la questione dei big data[19]) sempre dalla parte del dominante/sfruttatore ma anche una potenza che sovrasta e sovradetermina le organizzazioni umane dalla parte del dominato/sfruttato; il “mondo”, infine, si trova scisso nella sua determinazione di risorsa da parte del dominante/sfruttatore e di matrice esperienziale di sfruttamento per il dominato/sfruttato. Occorre, dunque, cercare di comprendere più in profondità di cosa è il sintomo l’Antropocene: in primo luogo di una necessità di cambiamento di paradigma esperenziale rispetto alla forma della modernità, in secondo luogo di una necessità di un rinnovato impegno all’interno di un’esperienza che sia definitivamente allargata.
- Antropocene come crisi: questione epistemologica e politica
Un autore che negli ultimi decenni si è impegnato nella messa in discussione – dal punto di vista epistemologico/politico – dell'intero impianto di quella che definiamo l'esperienza della modernità è stato Bruno Latour soprattutto con la sua opera Non siamo mai stati moderni[20], la quale, sin dal titolo, lascia intendere l'incompiutezza del “progetto”. La modernità si caratterizza mediante una “costituzione” che ha al proprio centro non solo la “nascita” dell'uomo, ma soprattutto la nascita parallela della “nonumanità”, rappresentata da cose, oggetti e animali. Contemporaneamente – e chiaramente in correlazione – si costituiscono anche le dicotomie classiche del moderno, quella tra natura e società/cultura, e quella tra il potere scientifico, che ha il compito di rappresentare la realtà sulla scena della “natura”, e il potere politico, che ha il compito di rappresentare i soggetti sulla scena della “società”. La modernità è attraversata dal paradosso fondamentale che, laddove cerca di definire le differenze tra questi ambiti, non fa altro che far proliferare costantemente “ibridi”, che sono esattamente mescolanze di natura e cultura, potere scientifico e potere politico: il funzionamento della modernità è dato proprio dal fatto che, nello stesso momento in cui crea scissioni e dicotomie, in realtà attiva mescolanze e ibridi sempre più complessi e “ingestibili”. I paradossi fondamentali che segnano l'incompiutezza della modernità sarebbero i seguenti: 1) «La natura non è una nostra costruzione: è trascendente e ci travalica infinitamente – La società è una nostra costruzione: è immanente al nostro agire»; 2) «La natura è una nostra costruzione artificiale in laboratorio: è immanente – La società non è una nostra costruzione: è trascendente e ci travalica infinitamente»[21]. Il nodo centrale è sicuramente l’attitudine “costruzionista” della modernità, la quale da Cartesio a Kant e, se si vuole, fino allo strutturalismo e al foucaultismo (ma, come vedremo a breve, finanche al “latourismo”), ha messo al centro l’attività “costruttiva” (e, poi, “decostruttiva”) del logos: il logos moderno, di volta in volta, costruisce ora la società/cultura ora la natura, e, secondo Latour, la costruzione trascendente dell’una prevede l’ammissione di immanenza dell’altra. Quello che intende sottolineare il sociologo è la paradossale convivenza di entrambi i dispositivi epistemologici, i quali si nutrono e rinforzano a vicenda, permettendo la proliferazione di ibridi; decisivo, allora, sarebbe il comprendere come questa “costituzione” riesca sempre a offrire le garanzie più efficaci per riprodursi: «Prima garanzia: anche se siamo noi che costruiamo la natura, è come se non la costruissimo – Seconda garanzia: anche se non siamo noi che costruiamo la società, è come se la costruissimo – Terza garanzia: la natura e la società devono rimanere assolutamente distinte; il lavoro di depurazione deve restare assolutamente distinto da quello di mediazione»[22] a cui si aggiunge la garanzia del “Dio barrato” che ha la funzione di arbitro e che è allo stesso tempo assolutamente impotente e sovranamente giudice. Sembra chiaro come l'intero dispositivo della modernità funzioni mediante la costruzione di un'esperienza che giochi sull'ambiguità di un rapporto tra immanenza e trascendenza che può essere costantemente rovesciato senza entrare palesemente in contraddizione: la natura è trascendente nella misura in cui non è possibile fare nulla contro le legge naturali, ma è anche immanente in quanto può essere costantemente mobilitata e dominata; la società è immanente nella misura in cui l'uomo moderno si sente completamente libero, ma è anche trascendente in quanto sembra che nulla si possa contro le leggi della società. In questo modo, è lecito utilizzare la natura esclusivamente come risorsa sottolineando il fatto che, comunque, la sua “verità” ci sfugge; è lecito reificare il sociale e porlo nella posizione della trascendenza sottolineando il fatto che, comunque, è un'opera umana; è lecito infine sentire profondamente la presenza della divinità nel reale sottolineando il fatto che, comunque, non interviene nelle vicende umane. L'impostazione di Latour, insomma, tende ad andare al di là delle polemiche interne alla modernità, per dimostrare semplicemente che, anche quando si trovano posizioni assolutamente divergenti e contrastanti, esse derivano (epistemo)logicamente da quella che viene chiamata “costituzione” della modernità e dalle sue garanzie. Anzi, la piattaforma del moderno risulta essere davvero invincibile perché contempla contemporaneamente le posizioni più nette e le critiche più dure e può farle giocare le une contro le altre a proprio piacimento[23].
Ma, al di là se si sia stati mai moderni oppure no, il problema diviene immediatamente politico: se è vero che il gesto fondamentale della modernità è stato contemporaneamente quello di separare, creandole, la società e la natura e dunque l'uomo e la nonumanità, e quello di tenerle insieme per produrre ibridi che si pongono costantemente a metà strada, quale può essere il percorso per uscire dall'impasse ecologica nella quale l'umanità si trova proprio a causa di questa “costituzione”? Latour non poteva parlare negli anni '90 del XX secolo di Antropocene, ma è chiaro come abbia dovuto ben presto confrontarsi con la questione dell'ecologia politica, in quanto essa metteva a tema proprio la relazione natura/società a partire dalla sostenibilità del sistema-terra. L'analisi politica di Latour muove da un'idea che pone al centro il ruolo della scienza nel suo portato epistemologico: «l'ecologismo non può essere il semplice ingresso della natura nella politica, poiché è da una certa concezione della scienza che dipende non soltanto l'idea di natura, ma anche, per contrasto, l'idea della politica»[24] e l'ecologismo non riguarda una crisi della natura in sé ma una crisi della natura come oggettività opposta alla società/cultura come soggettività.
Si tratta, dunque, di affermare come la tematica ecologista e, ancor di più, il significante semi-vuoto “Antropocene” rappresentino una crisi della rappresentazione della relazione natura/cultura, dunque una crisi del moderno tout court. La domanda politica non può che essere: che fare? e la soluzione di Latour è tutta profondamente incentrata sulla dimensione epistemologica: il mutamento ecologico di cui l'Antropocene è il nome obbliga a ripensare le questioni politiche nella loro più decisa materialità, dal “quanti siamo” al “che cosa mangiamo” passando per “a quale temperatura” e “dove abitiamo” – la costruzione di un mondo in comune non può che andare oltre le distinzioni politiche di destra e di sinistra e oltre ogni partizione che ha caratterizzato la modernità: con un gesto di pensiero che sembrerebbe avvicinarlo ai pensatori che pongono al centro l'anthropos nella sua indeterminatezza sociale, di genere e di razza, Latour afferma che, in opposizione al sentirsi moderni, ci si dovrebbe iniziare a sentire innanzitutto “terrestri”; non si tratta di una nuova forma di soggettività, ma della presa in consegna della necessità di andare oltre tutte le dicotomie della modernità[25]. In realtà, occorre dire che Latour non re-introduce, e non potrebbe, la figura di una soggettività forte – come potrebbe essere interpretata quella dell'anthropos – ma pone la questione piuttosto intorno alla necessità di costruire dei collettivi che vadano allo stesso tempo 1) oltre l'idea di “mondo” come oggettività unilaterale che si contrappone a un’altrettanto unilaterale soggettività, iniziando piuttosto a pensarlo come una sorta di spazio multinaturale attraversato e costantemente animato da differenti collettivi che agiscono come diversificati piani di immanenza; 2) oltre l'idea di una separazione tra “fatto” e “valore”, in quanto manifestazione di una delle forme di ibridazione più palesi e contraddittorie della dinamica del logos moderno – la descrizione di un fatto rappresenta la prescrizione di un valore, la prescrizione di un valore rappresenta la descrizione di un fatto, pur permanendo nella loro distinzione e irriducibilità; 3) oltre l'idea di un Uomo come entità unificata (e unificante) di una molteplicità di interessi divergenti e confliggenti. Il tutto sotto il segno di Gaia, una rappresentazione della Terra come intreccio pratico e “politico” tra l'umanità e l'ambiente[26]. Una versione molto sofisticata ed elegante di quella contraddizione tra antropocentrismo e postantropocentrismo che abbiamo visto agire anche in Dipesh Chakrabarty.
Dunque: se la questione fondamentale della modernità, in quanto razionalità riflessiva, riguarda la dicotomia tra società/cultura e natura – con tutto il portato di sfruttamento delle nature umane ed extraumane che ha determinato – è chiaro come un progetto politico, nell'età dell'Antropocene, non possa che passare attraverso un superamento di queste dicotomie. Se Latour ha mostrato con grande chiarezza la contraddittorietà della costruzione epistemologica della modernità, occorre fare un passo ulteriore per cercare di definire qual è il luogo di emergenza di questa costruzione concettuale tipicamente moderna che oppone l'uomo alla natura e soprattutto in cosa si differenzi la versione moderna rispetto alla ben più antica e fondativa distinzione/opposizione umano/naturale: il limite della posizione, che possiamo definire ultra-costruzionista, di Latour risiede nel fatto che non è chiaro quali siano le ragioni per cui la modernità si sia costruita in questa maniera – se sono chiari i vantaggi e gli svantaggi che le ha portato, rimane oscuro il movimento sotterraneo che ha fatto sì che un determinato logos potesse apparire sulla superficie dei saperi. Si tratterebbe di effettuare, in termini foucaultiani, il passaggio dall’archeologia alla genealogia, o di determinare, in termini marxiani, il luogo della costruzione ideologica e della mistificazione.
Jason W. Moore, studioso di matrice braudeliana, propone di utilizzare il termine Capitalocene al posto di Antropocene: si tratta di un modo per pensare e definire i contorni della crisi ecologica attuale e non di un argomento immediatamente riguardante la storia geologica del pianeta – ciò che viene chiamato Antropocene, in termini di proposta geologica, è un’era i cui segnali geologici sono stati preceduti e poi accelerati dal capitalismo; è chiaro, però, come l’Antropocene, in quanto era geologica, possa sopravvivere alla stessa estinzione del capitalismo. L’Era del Capitale, dunque, studiata attraverso il dispositivo di analisi storico-genealogica, spiegherebbe allo stesso tempo la contraddizione di antropocentrismo e postantropocentrismo e la contraddizione tra il progetto incompiuto della modernità e il suo possibile esito, in più permetterebbe di cogliere il “luogo” dell’apparizione dei primi elementi “materiali” che hanno portato poi alle dinamiche di astrazione/estrazione dell’umano e dell’extraumano e della loro stabilizzazione in un’immagine precisa, costruita e perennemente in contraddizione di società/cultura e natura. Secondo Moore
il Capitalocene utilizza un diverso approccio che privilegia la triplice elica dell’ambiente-in-formazione, cioè la trasformazione reciprocamente costitutiva di idee, ambienti e organizzazioni che co-producono i rapporti di produzione e riproduzione[27].
L’idea di fondo è, anche in questo caso, allo stesso tempo epistemologica e politica; si tratta di andare oltre la costruzione moderna di una società che si oppone alla natura e di una natura che si oppone alla società: del resto anche la visione “positiva” di una natura come wilderness e purezza, come visto, risulta essere assolutamente ideologica[28] (la natura allo stesso tempo da addomesticare e trasformare in risorsa, e da ammirare e lasciare “incontaminata” – entrambe le visioni possono sussistere soltanto sulla base di un’epistemologia duale che costruisce un’ontologia duale). Il capitale e il potere non agiscono sulla natura ma attraverso di essa, e ogni ecologia-mondo è caratterizzata da uno specifico statuto di oikeios[29] secondo il quale si organizzano e si co-producono, in maniera immanente, gli insiemi delle nature umane ed extraumane. La prospettiva dell’ecologia-mondo permetterebbe, dunque, di mettere al centro non la natura né l’uomo, ma la loro continua co-produzione: la natura (nel suo essere allo stesso tempo risorsa e wilderness da preservare) e la società (nel suo essere allo stesso tempo immanente e trascendente) non sono altro che astrazioni ideologiche necessarie per permettere la costruzione da un lato di una natura come oggetto esterno e dall’altro di un anthropos come eccezione e soggetto dell’interiorità. L’impostazione di Moore è pienamente braudeliana e le origini del Capitalocene vanno trovate all’interno del lungo XVI secolo quando si attuano, allo stesso tempo, «l’inversione della relazione lavoro-terra» e «la supremazia della produttività del lavoro come misura della ricchezza che pone le basi per l’appropriazione della “natura a buon mercato”»[30]. La posizione da marxista eterodosso porta Moore ad affermare che il capitalismo è un sistema di organizzazione ecologica del mondo, all’interno del quale assumono un ruolo fondamentale da un lato la mercificazione della vita e del lavoro e dall’altro la necessità di un’appropriazione gratuita della vita e del lavoro non mercificati. I rapporti di valore si fonderebbero su una duplice “costruzione”: il lavoro sociale astratto, cioè lo sfruttamento, che è a fondamento della produzione e si determina come lavoro retribuito; la natura sociale astratta, cioè l’appropriazione che è a fondamento della ri-produzione e si determina come lavoro non-retribuito. Tra questi due elementi – lavoro sociale astratto e natura sociale astratta – c’è un regime di co-produzione: l’astrazione/estrazione del lavoro sociale richiede un meccanismo sempre più espansivo di astrazione/estrazione di natura sociale a buon mercato, di qui le storie complesse di colonialismo e imperialismo. In questo senso, è chiaro anche che «il limite “ecologico” del capitale è il capitale stesso»[31] e che la crisi ecologica odierna si configura come una crisi della relazione tra produzione e ri-produzione, fondante la modernità capitalistica: l’impossibilità di accrescere la produttività del lavoro in quanto le nature astratte/estratte (forza-lavoro, energia, materie prime, cibo) divengono sempre meno a buon mercato e l’impossibilità delle nature non mercificate a fornire lavoro non-retribuito in vista dell’inizio di un nuovo ciclo di accumulazione.
La crisi ecologica, in questo senso, è una crisi del capitalismo come ecologia-mondo – dunque come una specifica modalità di co-produzione di società e natura, produzione e ri-produzione –, e una manifestazione chiara di questa “crisi” la si può trovare nell’ambito della “cura” (in questo senso, le indicazioni ecologiche incontrano le indicazioni femministe): la crisi odierna può essere letta come il momento terminale della contraddizione socio-riproduttiva che ha sempre caratterizzato il capitalismo, contraddizione tra una riproduzione naturale e sociale che è condizione necessaria per l’accumulazione, e la vocazione del capitalismo a un’accumulazione che sia illimitata e che costantemente destabilizza il processo di riproduzione sociale su cui necessariamente si poggia[32].
Il luogo di emergenza della modernità incompiuta latouriana sembra essere il lungo XVI secolo con le sue dinamiche proto-capitaliste, ma quale esito è possibile pensare all’Era del Capitale, come la chiama Moore, e più in generale alla modernità con la sua specifica razionalità riflessiva? Le strade non possono che essere due: 1) il capitale, avendo raggiunto il suo limite “ecologico”[33], entra nella sua contraddizione finale tra produzione e accumulazione, dunque tra produzione e ri-produzione e si attivano i processi per la costituzione di una nuova ecologia-mondo (una ristrutturazione della relazione di co-produzione tra natura umana ed extraumana); 2) il capitale fa saltare ogni equilibrio e conduce l’umanità verso la catastrofe/apocalissi.
Occorre, dunque, attivare la pensabilità di una nuova esperienza, allargata, capace di produrre nuove configurazioni nella relazione tra bios, logos e “mondo”; un modo di superare la grammatica della modernità e la sua aritmetica (razionalità riflessiva più capitalismo) all’interno di un percorso di teoria e prassi che, mediante il conflitto, permetta la costituzione di una rinnovata relazionalità intra e inter specifica.
- Verso un’esperienza allargata
La modernità, dunque, mediante la problematizzazione allargata dell’Antropocene, si mostra ed esprime attraverso una serie di contraddizioni: se l’analisi ha condotto alla definizione del percorso di costruzione della specifica esperienza del moderno, mediante conflitti, sopraffazioni, violenze e sfruttamento, è anche vero che ha iniziato a segnalare anche i punti mediante i quali può essere attaccata e rovesciata la narrazione e la realtà.
Possiamo iniziare con il segnalare l’“errore” compiuto da Chakrabarty e Latour – seppur nelle loro differenze – quando segnalano la necessità di ripensare un soggetto universalizzante, seppur immerso in una storia vasta e geologica o caratterizzato dalla capacità di produrre ibridi e di ibridarsi esso stesso. Se la soggettività moderna si mostra sempre più nel suo essere un allotropo empirico-trascendentale – definizione che, tradotta sul piano etico-politico, è da intendersi come relazione di duplicazione “scientifica” (dunque, per certi versi, definitiva e “necessaria”) in dominante/dominato, sfruttatore/sfruttato – è anche vero che il superamento di questa dicotomia può avvenire soltanto dopo che le due determinazioni abbiano dato avvio a uno “scontro”: se è forse vero che una scialuppa di salvataggio non esiste per nessuno (nel momento della “catastrofe” planetaria) e che sarebbe giusto iniziare a sentirsi in un certo senso “terrestri” (definizione che intende andare oltre il cosmopolitismo e l’internazionalismo), un possibile superamento della contraddizione antropocentrismo/postantropocentrismo non può che passare attraverso il conflitto; non si tratta semplicemente di ri-evocare la potenza del negativo, si tratta piuttosto di identificare il luogo dell’emergenza trasformativa. Se la modernità ha mosso i suoi primi passi definendo il luogo dell’emergenza del suo specifico logos dualizzante dal punto di vista epistemologico e ontologico a partire da una ristrutturazione della relazione produttiva e ri-produttiva (metabolica) tra bios e “mondo”, il superamento non può che avvenire attraverso una “rivoluzione” che faccia saltare la determinazione del dispositivo: ritrovare, mediante lo strumento della problematizzazione, il luogo originario dell’emergenza, significa identificare il luogo dove agire nel presente.
È noto come Latour inquadri il problema della “rivoluzione” come effetto della stessa “costituzione” moderna: la modernità metterebbe in campo i quattro dispositivi della naturalizzazione, sociologizzazione, traduzione in discorso e oblio dell’essere per costruire la piattaforma che determina la necessità di una pensabilità del tempo come lineare – il passato va cancellato per mistificare gli ibridi che fondano la modernità (la quale funziona soltanto mediante la partizione uomo/natura) e per effettuare tale “cancellazione” si “costruisce” il concetto di “rivoluzione”. La costituzione moderna necessita di un tempo lineare che neghi il passato (rivoluzione) «perché cancella gli annessi e connessi degli oggetti della natura e rende un miracolo il loro improvviso emergere»[34] – un miracolo che serve per spiegare l’emergere degli ibridi che la costituzione permette nello stesso momento in cui li vieta, mediante quella che possiamo definire l’ennesima dicotomia tipica della modernità, quella tra arcaico e attuale. Secondo Latour «la temporalità moderna non ha niente di “giudaico-cristiano”» per cui si tratta di «una proiezione dell’Impero di Mezzo sulla linea trasformata in freccia della separazione brutale tra ciò che non ha storia, pur emergendo comunque al suo interno (le cose della natura) e ciò che non esce mai dalla storia (i travagli e le passioni degli umani)»[35]. Decadenza, rivoluzione, invenzione della tradizione non sarebbero altro che repertori in vista del consolidamento della costituzione moderna. La “rivoluzione” non può che essere un sogno di cancellazione della storia della relazione fondante e ibridata tra natura umana ed extraumana. Si tratta di una posizione molto complessa ma per certi versi autocontraddittoria: se il compito della nonmodernità è quella di mostrare la proliferazione storica degli ibridi – mostrare come la storia sia la potenza dominante al punto tale da giungere alla provocazione che Ramses II non può essere morto di tubercolosi perché all’epoca non era stato ancora “scoperto” (per Latour: “inventato”) il bacillo della tubercolosi – non si comprende facilmente perché la rivoluzione dovrebbe rappresentare la cancellazione della storia e non la sua ri-attivazione a un livello più alto.
La problematizzazione che abbiamo seguito in queste brevi note mostra esattamente questo passaggio così come l’“errore” di Latour: nel momento in cui il sociologo non è riuscito a intravedere la soglia di emergenza della “costituzione” moderna (di fatto non spiegandone le “ragioni” dell’apparizione), è chiaro che ricada nel medesimo errore della modernità, storicizzare soltanto la storia dell’uomo, de-storicizzando la storia della relazione esperienziale tra bios, logos e “mondo”; e ancor di più, affermando la necessità di definire gli ibridi come elemento contraddittorio di una modernità che li produce nella storia vietandoli nella teoria, rischierebbe di trovarsi imbrigliato in un costruzionismo iper-radicale oltre il quale sarebbe impossibile procedere: qual è la storia specifica dell’ibrido? In che senso una forma di classificazione produce anche una forma specifica di temporalità? Il tempo è soltanto una costruzione della soggettività moderna iper-classificatoria? È davvero pensabile un’esperienza temporale a spirale affinché «le nostre azioni appaiano in definitiva come multitemporali?»[36]. Quando, invece, seguiamo il percorso della problematizzazione e ritroviamo il luogo di emergenza di una specifica configurazione, allora è possibile pensare il suo superamento: l’“errore” di Latour è quello di liquidare con troppa facilità la dialettica, la quale consente sempre di pensare il superamento dell’opposizione soggetto/oggetto, permettendo allo stesso tempo di pensare i posizionamenti storici dell’uno e dell’altro[37].
Occorre attivare, dunque, una pratica del conflitto e una teoria della problematizzazione: il conflitto non può che determinarsi su più piani, da quello locale fino alla dimensione globale, passando per la “resistenza” dello Stato – e, per conflitto, deve intendersi una pratica politica dal basso che intervenga ogni volta che si riproduca la dinamica di scissione; una teoria della problematizzazione deve poter mettere in campo una nuova configurazione allargata a venire della relazionalità bios, logos, “mondo”: inventare nuove forme di relazione tra vita umana ed extraumana, ripensare l’importanza del logos nella sua più antica etimologia di legame, immaginare un “mondo” che possa andare oltre la mera oggettività. Allargare l’esperienza significa ripensare allo stesso tempo la dinamica del conflitto come produttrice di una nuova configurazione all’interno della quale si superi la dicotomia fondante la modernità: riattivare la pratica del conflitto significa riattivare una pratica di ri-appropriazione dell’esperienza. Andare verso un’esperienza allargata significa superare anche la postmodernità (nella nostra “periodizzazione” già sempre parte della modernità), riattivando centralità e decentramento della vita umana ed extraumana, e attivando una piattaforma di teoria e prassi che dia avvio a una nuova configurazione.
[1] J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (2016), tr. it. ombre corte, Verona 2017, p. 29.
[2] Il termine Antropocene fu utilizzato inizialmente dal microbiologo Stoermer negli anni ’80 del secolo scorso per poi divenire famoso grazie a una pubblicazione dello stesso Stoermer con Crutzen, Premio Nobel per la Chimica nel 2000 (cfr. P.J. Crutzen, E. F. Stoermer, The Anthropocene, in «IGPB Newsletter», 41, 2000, pp. 17-18). Interessante notare come negli anni ’80 il termine non suscitò il complesso divenire problema che ha mostrato successivamente. È possibile affermare che, adesso, si tratti di un termine quanto mai alla moda ed è proprio questo fatto che occorre preliminarmente indagare. Per una ricostruzione dello stato del dibattito (sia per quanto concerne le hard che le soft science) cfr. Y. Malhi, The Concept of the Anthropocene, in «Annual Review of Environment and Resources», 42, 2017, pp. 77-104. Per un’analisi di quelle che vengono definite le cinque scene fondamentali mediante le quali si dipana la complessità del discorso sull’Antropocene (questione scientifica, spirito del tempo, provocazione ideologica, nuove ontologie, fantascienza) cfr. J. Lorimer, The Anthropo-scene: A guide for the perplexed, in «Social Studies of Science», 47, 2017, pp. 117-142.
[3] Cfr. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica (1983), tr. it. Donzelli, Roma 2005.
[4] Si tratta degli estremi di una polemica molto vivace: i rapporti tra ecologia e marxismo sono oggetto di un’importante riflessione che vede anche “scontri”, a tratti accesi, tra lo stesso Jason W. Moore e John B. Foster, rappresentante di punta dell’eco-socialismo, sulla questione se il capitalismo rappresenti una frattura metabolica tra uomo e ambiente (Foster) o un passaggio di stato in una relazione metabolica che si organizza in differenti e storicizzabili ecologie-mondo (Moore). Per la “critica” di Moore a Foster cfr. J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, tr. it. ombre corte, Verona 2015, in particolare il saggio Frattura metabolica o cambiamento metabolico? Dal dualismo alla dialettica nell’ecologia-mondo capitalista, pp. 138-160; per una risposta puntuale di Foster cfr. l’intervista In Defense of Ecological Marxism: John Bellamy Foster responds to a critic, consultabile online su: https://climateandcapitalism.com/2016/06/06/in-defense-of-ecological-marxism-john-bellamy-foster-responds-to-a-critic/ (link consultato il 7 aprile 2019).
[5] Cfr. D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, in «Critical Inquiry», 35, 2009, pp. 197-222. Si tratta di un saggio molto importante e che ha suscitato un vasto dibattito, soprattutto intorno alla questione del “soggetto” della catastrofe dell’Antropocene, se è da intendersi come l’intera specie umana o, in chiave politica (marxista o post-coloniale che sia), l’uomo bianco e occidentale, a tal punto che la tesi n. 4 afferma che «l’incrocio di storia delle specie e di storia del capitale è un processo che prova i limiti della comprensione storica» (p. 220, traduzione nostra). Lo storico, in realtà, è tornato sulla relazione tra “Antropocene” e storia in più occasioni – segnaliamo innanzitutto Id., Postcolonial Studies and the Challenge of Climate Change, in «New Literary History», 43, 2012, pp. 1-18, dove si sottolinea la necessità dell’integrazione tra tre immagini dell’umano, quella del soggetto universalistico e portatore di diritti, quella post-moderna e post-coloniale in cui il soggetto è dotato di differenze di classe, genere, cultura, storia e così via, e quella dell’umano che agisce come una forza geologica; importante anche uno degli ultimi interventi: Id., Anthropocene Time, in «History and Theory», 57, 2018, pp. 5-32.
[6] «La fine del mondo è già avvenuta […] ovviamente, il pianeta Terra non è esploso: ma il concetto di mondo ha smesso di essere operativo» afferma provocatoriamente il filosofo Timothy Morton, intendendo con questa espressione la fine di una certa visione del mondo come “oggettivo” ed “estraneo”; la periodizzazione che assume Morton è duplice: il 1784, con il brevetto della macchina a vapore a opera di James Watt, e il 1945 quando a Trinity nel New Mexico venne testata la prima bomba atomica (cfr. T. Morton, Iperoggetti (2013), tr. it. Nero, Roma 2018, qui pp. 17-18). Per quanto riguarda la periodizzazione, il discorso sarebbe molto complesso, ma le date segnalate sono quelle più unanimemente accettate per quanto concerne l’ingresso nell’Antropocene geologico.
[7] Si tratta della posizione di coloro che hanno sottoscritto il Manifesto Ecomodernista, all’interno del quale è possibile leggere come «la conoscenza e la tecnologia, applicate con giudizio, possano conseguire l’avvento di un positivo, persino superlativo, Antropocene […] Un Antropocene generoso con la specie umana implica che gli uomini applichino con padronanza i loro crescenti poteri sociali, economici e tecnologici per migliorare il benessere dei loro simili, stabilizzare il clima e proteggere il mondo naturale» (è possibile consultare il testo del Manifesto al seguente indirizzo: http://www.ecomodernism.org/italiano, link consultato l’8 aprile 2019). Un'ottima critica al Manifesto Ecomodernista si trova in C. Hamilton, Anthropocene as rupture, in «The Anthropocene Review», 32, 2016, pp. 93-106.
[8] Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. BUR, Milano 2004.
[9] Ibid., pp. 413-414.
[10] Id., “Bisogna difendere la società” (corso tenuto nel 1976), tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, p. 206.
[11] Cfr. N. Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo (1998), tr. it. Einaudi, Torino 2008.
[12] L’espressione zoepolitica rientra nelle proposte teoriche della filosofa Rosi Braidotti (cfr. R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (2013), tr. it. DeriveApprodi, Roma 2018); noi la utilizziamo nel senso di un allargamento della biopolitica e, in questo contesto, in chiave negativa. Del resto anche la biopolitica può avere un’accezione positiva e negativa a seconda del punto di vista politico da cui la si guarda.
[13] Si tratta di un gioco di parole con il titolo di un importante saggio di Davide Tarizzo che analizza gli intrecci tra metafisica, scienza e politica nella modernità, a partire dalle intuizioni foucaultiane e portandole alle estreme conseguenze: la vita, nella sua articolazione allo stesso tempo biologica e politica, come una sorta di ultimo feticcio della nostra epoca (cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010).
[14] R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 70, p. 73.
[15] Cfr. J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, cit.
[16] Si segnala, per quanto concerne le possibili connotazioni neocoloniali, e anche genericamente di classe e di genere, della riflessione sull’Antropocene S. Barca, L’Antropocene: una narrazione politica, in «Riflessioni sistemiche», 17, 2017, pp. 56-67. Per quanto concerne quello che viene definito il paradosso fondamentale della narrazione antropocentrica dell’Antropocene – il dispositivo di denaturalizzazione (una natura violata dall’uomo) e rinaturalizzazione (l’uomo come l’ente che “per natura” domina la natura) cfr. A. Malm, A. Hornborg, The geology of mankind? A critique of the Anthropocene narrative, in «The Anthropocene Review», 1, 2014, pp. 62-69. Sul nodo, invece, del razzismo ambientale (che non affrontiamo nel saggio) cfr. R. Keucheyan, La natura è un campo di battaglia (2014), tr. it. Ombre Corte, Verona 2019, in particolar modo il primo capitolo (pp. 17-63).
[17] A partire da questa posizione sono state rivolte diverse critiche a Dipesh Chakrabarty proprio perché, nei suoi scritti sull’Antropocene, avrebbe assunto la specie come agente globale, da un lato rischiando un essenzialismo inaspettato e dall’altro nascondendo il ruolo determinante del capitalismo – ecco, ad esempio, cosa scrive lo storico: «Sembra vero che la crisi dei cambiamenti climatici sia stata necessitata dai modelli consumistici ad alta energia che l'industrializzazione capitalista ha creato e promosso, ma l'attuale crisi ha portato alla luce alcune altre condizioni per l'esistenza della vita nella forma umana che non hanno alcuna connessione intrinseca con le logiche delle identità capitaliste, nazionaliste o socialiste. Sono collegati piuttosto alla storia della vita su questo pianeta, al modo in cui le diverse forme di vita si connettono tra loro e al modo in cui l'estinzione di massa di una specie potrebbe significare un pericolo per un'altra. Senza una tale storia della vita, la crisi dei cambiamenti climatici non ha alcun “significato” umano. Infatti, come ho detto prima, non è una crisi per il pianeta inorganico in alcun senso significativo», D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, cit., p. 217 (la traduzione e i corsivi sono nostri).
[18] Il concetto di natura “a buon mercato” è centrale nella riflessione di Jason W. Moore. Cfr. J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, cit., in particolare il saggio La fine della natura a buon mercato. Come ho imparato a non preoccuparmi dell’ambiente e ad amare le crisi del capitalismo, pp. 91-123.
[19] Ci permettiamo di rinviare a D. Salottolo, La costruzione del Sé (e del Noi) ai tempi del Dataismo, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 20, 2018, pp. 64-92, consultabile al seguente indirizzo: http://www.scienzaefilosofia.com/2018/12/28/la-costruzione-del-se-e-del-noi-ai-tempi-del-dataismo/ (link consultato il 18 aprile 2019).
[20] Cfr. B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), tr. it. elèuthera, Milano 2016.
[21] Ibid., p. 52 (figura 2).
[22] Ibid.
[23] È possibile affermare che la stessa impostazione epistemologica di Bruno Latour, che richiama da vicino, almeno nel dispositivo, quanto “costruito” da Foucault nel saggio Le parole e le cose, quando parla di episteme e apriori storico, possa rischiare di ricadere in una posizione completamente, radicalmente e paradossalmente “costruzionista” (cfr. B. Latour, Ramses II est-il-mort de la tubercolose?, in «La Recherche», 309, 1998). Per non dire che resta il problema della “presa di coscienza” in un costruttivismo così radicale: se si è figli di una determinata “costituzione”, come si possono svelarne le contraddizioni? Dove si applica la “resistenza” alla costruzione?
[24] Id., Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze (1999), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 323.
[25] Cfr. C. Riquier, Una Terra senza popolo, dei popoli senza Terra: intervista a Bruno Latour, consultabile al seguente indirizzo: http://effimera.org/terra-senza-popolo-dei-popoli-senza-terra-intervista-bruno-latour-camille-riquier/ (link consultato il 9 aprile 2019). Si noti una certa assonanza – seppur a partire da matrici differenti – con la riflessione/proposta di Chakrabarty.
[26] Cfr. B. Latour, Face à Gaïa. Huit conférences sur le Nouveau Régime Climatique, La Decouverte, Paris 2015.
[27] J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit., p. 31.
[28] Cfr. R. Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, cit. Interessante anche la connessione proposta dallo studioso tra wilderness e whiteness a fondamento del razzismo ambientale.
[29] Cfr. J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, cit., in particolare il saggio Da Oggetto a Oikeios. La produzione dell’ambiente nell’ecologia-mondo capitalista, pp. 124-137, laddove si sottolinea che «l’oikeios è un modo di nominare la relazione creativa, storica e dialettica tra, e anche dentro, le nature umana ed extra-umana» (qui, pp. 125-126).
[30] J.W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit., pp. 67-68.
[31] Ibid., p. 129
[32] In questo senso, ha ragione Nancy Fraser quando afferma che «questa crisi della riproduzione sociale è, a mio avviso, una componente di una “crisi generale”, che ne comprende anche altre – economiche, ecologiche e politiche, ciascuna delle quali interseca ed esaspera l’altra», N. Fraser, La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo (2016), tr. it. Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 12.
[33] È possibile leggere, in questa chiave, l’opera fondamentale di un altro “allievo” di Fernand Braudel, cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo (2007), tr. it. Feltrinelli, Milano 2008.
[34] B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit., p. 93.
[35] Ibid., pp. 94-95.
[36] Ibid., p. 100.
[37] «È merito della dialettica l’aver cercato di ripercorrere un’ultima volta il cerchio completo dei premoderni, inglobando tutti gli esseri divini, sociali e naturali, per evitare le contraddizioni del kantismo tra la funzione di depurazione e quella di mediazione. Ma la dialettica ha sbagliato contraddizione. Ha individuato bene quella tra il polo del soggetto e quello dell’oggetto, ma non ha visto quella tra l’insieme della Costituzione moderna che si veniva affermando e la proliferazione dei quasi-oggetti, che invece caratterizza il XIX secolo come il nostro […] Ora, credendo di abolire la separazione kantiana tra cosa in sé e soggetto, Hegel la rende ancora più forte. L’eleva al rango di contraddizione, facendo della sua estremizzazione e del suo superamento il motore della storia» (ibid., pp. 76-77).