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Abstract
If still in Kant, the catastrophe was represented by the image of Lisbon earthquake, in the second half of the 20th century, the catastrophe has its own metaphor in the “hybris” of Technology. In its perverted circularity, Technology is the scene of a match played exclusively by Man, where there’s no trace of an arbiter or director. The disorientation in front of the results of his History goes beyond any ability to feel and imagine, beyond any possible human responsibility; it implies a loss of world, that is the loss of the Sense of relationship between a Subject and the Object, between mutually interested Subjects. Therefore, the catastrophe is always imminent, visible, though at the same time unperceived. Who could testify it if not Man, through his astonishment, questions and wonder? But what is left of Man once he has emancipated from the “shock” of Contingency?
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Scarti evolutivi?
La parola catastrofe rinvia ai nostri giorni a uragani, a tsunami o a terremoti che si abbattano sempre più numerosi su terre vicine e lontane. Ne rimaniamo sgomenti e ci sentiamo fragili e attaccabili. L’effetto non è molto diverso da quello prodotto dall’attentato alle torri gemelle, dalle guerre civili che attraversano paesi impoveriti dal colonialismo e segnati da conflitti religiosi ed etnici. Due tipi di catastrofe, l’una da ascrivere alla natura, l’altra alle vicende umane, senza che si registri una qualche variazione nel senso di sgomento dinanzi a qualcosa che sembra incontrollabile. È anche vero che i mezzi di informazione in ogni modo ci tengono continuamente allertati sulle variazioni climatiche – il freddo polare, il caldo torrido, l’arrivo di uragani – come sulle stragi – aggiornandoci in maniera spettacolare sulle guerre con la pretesa di alleggerire gli effetti soggettivi e oggettivi di questi eventi che, come tutti gli eventi, hanno sempre qualcosa in più o in meno di quanto sia prevedibile. Non è una novità per l’uomo cercare di conoscere in anticipo, leggere nel cielo o negli strumenti sempre più sofisticati il futuro. L’uomo è quasi naturalmente proiettato in avanti, sia come sapiens sia come faber. Gli scarti evolutivi determinati da questa capacità di progettare non compensano, però, l’effetto annichilente delle catastrofi capaci di distruggere quanto si è costruito, di delegittimare il potere previsionale della scienza e della conoscenza, lasciando l’umanità disarmata e fragile. L’impegno profuso nel fare ipotesi sul futuro tende fondamentalmente a rendere tollerabile l’intollerabile, a combattere l’angoscia, il senso del nulla, trovando un nome per le paure indeterminate, distogliendo dalla più problematica domanda di senso sulla vita umana. Si può allora capire che l’esibizione e la spettacolarizzazione delle previsioni tiene impegnate le menti, le cattura nel presente immediato o in un futuro prossimo fino a quando il gioco si rompe nell’evento catastrofico, imprevedibile e repentino. Siamo sempre pronti virtualmente, mai veramente attrezzati realmente.
Ogni volta si apre la questione e prolifera una letteratura dedicata, addirittura preveggente come nei film capaci di offrire immagini più reali, talvolta in anticipo sulla realtà, di catastrofi naturali e antropologiche, in cui l’illusione di vedere prima o di rimanere spettatori del disastro distoglie dalla paura dell’ignoto e dell’imprevedibile. In una sorta di profezia secolarizzata si disegna la tempesta perfetta, l’attentato terroristico con il piacere perverso di stare da un’altra parte, al di qua dello schermo, come il naufrago che guarda da lontano il mare in tempesta e la nave che affonda[1].
Se l’etimologia del termine catastrofe nella nostra tradizione fa riferimento al significato conferitogli da Aristotele secondo cui la catastrofe è una sorta di punto limite in cui qualcosa si conclude rovesciandosi, per avviare un nuovo inizio o una trasformazione, il significato che assume nei nostri giorni è sempre più negativo. Là dove si insiste sul rovesciamento e sulla risoluzione di una crisi il termine viene spesso associato all’apocalisse come fine del mondo, rivelatore o segnalatore dell’impossibilità di vincere il male, o meglio di combatterlo umanamente, rinviando a un fattore trascendente che ne dà ragione e in tal modo lo rende tollerabile. Persino l’uomo Moderno dinanzi alla catastrofe ritrova l’afflato metafisico, curvandolo antropocentricamente nella domanda sulla giustizia di Dio, che permette il male, punendo indistintamente il giusto e l’ingiusto.
- Kantastrofi
L’intonazione egocentrica dell’interrogazione dinanzi alla catastrofe è ben analizzata da Kant in occasione del terremoto di Lisbona: «La considerazione di tali spaventosi eventi è ricca di insegnamenti. Essa mortifica l’uomo facendogli capire che non ha alcun diritto, o che almeno l’ha perduto, di attendersi dalle leggi naturali stabilite da Dio soltanto certe conseguenze gradevoli: forse in tal modo egli imparerà a considerare che questa arena delle sue bramosie non dovrebbe contenere il termine di tutti i suoi intenti»[2].
Il terremoto mette l’uomo dinanzi ai suoi limiti, portando a emergenza l’errore prospettico della sua hybris come dell’ottimismo. Per Kant è ancora presente l’idea di un equilibrio, di una tecnica della natura, sia pure sconosciuta all’uomo, che nonostante i suoi sforzi rimane sempre smarrito dinanzi all’imprevedibile e al distruttivo. Allora l’evento può avere l’effetto benefico di correggere l’illusione di una piena disponibilità e utilizzabilità della natura, mostrando come il piano della Provvidenza non appartiene né al sapere, né al fare dell’uomo.
Kant sottolinea in questo contesto l’ambivalenza del sentimento umano dinanzi alla grandezza dei terremoti, che manifestano qualcosa in più della superficie e dell’estensione della terra calcolata dalla scienza, portando allo scoperto la forza indipendente e ignota della terra. Solo a partire da una visione antropocentrica il terremoto può essere interpretato come potenza cieca e distruttiva, consentendo all’uomo di coltivare, sia pure nella posizione di vittima, l’illusione di vivente privilegiato. Se «nella scienza naturale v’è anche un certo preciso gusto il quale sa ben distinguere le libere divagazioni di un’ansia di novità dai sicuri e cauti giudizi che hanno dalla loro parte la testimonianza dell’esperienza e la credibilità razionale»[3], l’uomo tende all’audacia. Anche il Prometeo dei tempi moderni, edotto dalla scienza, non conosce il divario tra l’audacia e la reale potenza, illudendosi di poter disporre della provvidenza divina e della terra, finendo per constatare di essere solo una parte della natura creata, «sappiamo che l’insieme tutto della natura è un ben più degno oggetto della saggezza divina e delle sue disposizioni. Noi siamo una parte di essa, e vogliamo essere tutto»[4]. Anche la catastrofe, allora, come la natura in generale, ha una funzione educativa per l’uomo, il quale tuttavia preferisce interrogarsi sulla giustizia di Dio piuttosto che sulla sua finitezza. L’audacia porta a sottovalutare la funzione del limite prospettico come focus di un orizzonte in cui orientarsi senza poter dominare il tutto.
In qualche modo per Kant perciò la valenza negativa della catastrofe è un problema per l’uomo più che per la natura che segue il suo corso, soprattutto quando l’audacia non è moderata dal buon senso di una scienza che sa bene che la natura rimane un oggetto e in quanto tale mai del tutto assimilabile al soggetto. D’altra parte per Kant non è possibile prevedere la svolta tecnologica della scienza e le conseguenze dell’azione di questa sulla “tecnica della natura”. In maniera significativa, però, Kant sottolinea come la valenza negativa della catastrofe destabilizzi in primo luogo l’economia umana, producendo il crollo di una visione del mondo costruita sulla sfida più che sull’attenta valutazione dei limiti della conoscenza. Una saggia prudenza quella di Kant successivamente sempre più risucchiata dall’istanza pragmatica della tecnica che riduce la natura a materia del progresso scientifico.
Solo qualche anno dopo, infatti, Hegel legge il destino della natura, fuori e dentro l’uomo, attraverso la figura di Proteo del mito ripreso nell’Odissea. Compito dell’uomo è il disvelamento dei suoi segreti, «domare questo Proteo, [e] trovare in questa esteriorità solo lo specchio di [se stesso], di vedere nella natura un libero riflesso dello spirito»[5]. In un antropocentrismo non solo ideale, la conoscenza non solo la scienza svela i segreti della natura, ma interviene con una violenza legittima a farne il riflesso dello spirito.
- Postumi?
Hegel parla esplicitamente di conoscenza pratica della natura, in cui si legittima una vera e propria violazione in vista della utilizzabilità di questa. Più che le sottili analisi di Heidegger[6] o la riflessione morale di Huxley sulle vendette dalla natura[7], può essere utile richiamare la lettura ironica di Prometeo fornita da un pensatore testimone critico degli effetti dell’audacia cieca della scienza messa in opera con l’Olocausto e la bomba atomica.
Anders rilegge la figura di Prometeo divenuto più che coraggioso un umile subordinato degli artifici. Se per Kant il dislivello si dà tra la conoscenza e il suo oggetto, la natura, per Anders la tecnica costruisce un dislivello tra l’uomo e i suoi prodotti. Prometeo è ormai un titano ignaro degli effetti della sua azione, antiquato e senza Zeus: «Oggigiorno possiamo senz’altro progettare la distruzione di una grande città ed effettuarla con i nostri mezzi di distruzione. Ma immaginare questo effetto, afferrarlo, lo possiamo soltanto in modo del tutto inadeguato. E tuttavia quel poco che siamo in grado di immaginare: il quadro confuso di fumo, di sangue e rovine è ancor sempre molto se lo confrontiamo con la minima quantità di ciò che siamo capaci di sentire o di cui siamo capaci di sentirci responsabili al pensiero della città distrutta»[8].
Il quadro catastrofico da cui parte Anders non è il terremoto di Lisbona, gli effetti non sono quelli di una natura ferita, ma in qualche modo non violentata ancora dalla mano dell’uomo: l’Olocausto e la bomba atomica assemblano segmenti materiali e naturali in paesaggi inquietanti. Dinanzi a questo quadro, più che sentirsi semplicemente inadeguato, l’uomo sopravvive come un giocattolo rotto. Privato del suo equilibrio, si muove distonicamente: non è l’insieme che gli sfugge, ma la continuità del Sé, vittima di una distonia tra immaginazione, di sentimento e desiderio provati di un orizzonte, di una visione del mondo: l’uomo stesso si ritira in se stesso come una chiocciola[9], incapace di spingersi oltre il suo guscio. Questa tana lo ripara dalla responsabilità verso il significato più profondo per l’intera sua esistenza. L’effetto di questo scompenso nell’identico tra immaginazione e sentimento è l’impossibilità di convertire in catarsi lo choc destabilizzante.
Smarrendo con la propria identità l’orizzonte/mondo l’uomo vive in un assoluto presente, incapace di cogliere o di rispondere dell’istanza compulsiva della tecnica: senza futuro, cieco all’Apocalisse incombente. Viene meno ogni brivido, da cui si sprigiona meraviglia e interrogazione critica sul mondo nella confusione di immagini che scorrono dinanzi all’uomo e nell’uomo. E in una sorta di fusione oggettivante viene meno la responsabilità verso lo spazio comune. È la perdita di mondo l’effetto di una patologia del tempo, che arresta l’interrogazione critica della filosofia. Perciò secondo Anders, «se, forse, non siamo in grado di guidare la mano del nostro destino, non dovremmo rinunciare a sorvegliarlo»[10].
Senza questa spinta l’uomo, bisognoso di confini in mancanza del profilo della sua stessa identità, finisce per arrancare dietro il ritmo convulso di un tempo che non gli appartiene, chiamato a prestazioni sempre più elevate in un’attesa indefinita. Non si tratta del dissolversi della scena comune nel venir meno di impegno politico e di responsabilità morale, quanto, come sottolinea Anders, di un esser fuori luogo dell’uomo, sbalzato dal centro, come focus di una prospettiva ideale, e finito nel mezzo di una pluralità di informazioni che lo colpiscono nel momento stesso in cui lo informano, lo deprimono nel momento in cui lo incentivano. In una sorta di immunizzazione agli effetti dannosi, il sentirsi familiare, a casa propria, maschera l’alienazione come spossessamento, «[…] essa mediante le immagini mira a cullare l’uomo, privato del suo mondo nell’illusione di averlo, anzi di aver persino un universo, che familiare in tutte le sue parti, è suo e a lui somigliante»[11].
In questo senso con il male svanisce ogni colpa da punire o espiare là dove il flusso di immagini, sostituendosi e invadendo il flusso di coscienza, crea illusioni che non inficiano solo la verità, ma creano la convinzione di un mondo familiare, proprio. Tutto è a portata di mano, riproducibile e sostituibile per un soggetto disattivato e reso indifferente dal guscio che lo isola e da un mondo che lo culla. In questa scena tutto è da venire e nulla accade per un organismo privato della sua stessa spinta vitale.
In questa sorta di densità opaca di sollectazioni, il rischio è l’entropia dell’umano. Bateson parte dall’entropia come «grado di mescolanza, disordine, indifferenziazione, imprevedibilità e casualità delle relazioni tra le componenti di un qualunque aggregato», non solo fisico[12]. L’entropia negativa è invece il ristabilimento di condizioni di equilibrio come risultante delle due tendenze: quella conservativa dell’organismo e la provocazione destabilizzante proveniente dall’ambiente. Vita della natura e vita della mente, perciò, non hanno né un andamento lineare, né un andamento circolare, configurandosi piuttosto come un complesso reticolo che si dispone lungo una spirale in cui ogni trasformazione proviene e incide sui tratti già consolidati e ogni capacità di conservazione decide sulla possibilità di sopravvivenza dell’organismo allo choc ambientale. Quanto più l’organismo è in grado di attivare relazioni tanto più è stimolato alla tensione tra conservazione e trasformazione, dal momento che riceve informazioni nella differenziazione degli stimoli a cui reagisce un’entropia negativa in cui vengono ammortizzati gli effetti di imprevedibilità, di disordine che potrebbero determinarne la morte. Nell’allargarsi del raggio e nel moltiplicarsi delle sinuosità scorre il mistero che richiede all’osservatore di spostarsi dall’astrazione quantitativa e polarizzante all’intuizione della continuità del ritmo del divenire: ogni processo è difesa del consolidato e adattamento ai mutamenti continui e imprevedibili dell’ambiente. Il risultato nella sua configurazione e nella sua durata deriva da queste due componenti e dalla lenta verifica del successo delle mutazioni, prima provvisorie, poi consolidate, ai fini della sopravvivenza. In fin dei conti un organismo rintanato in un guscio immerso in un mondo ipnotizzante sarebbe destinato alla morte.
L’ipotesi pessimistica sul destino di un vivente imprigionato in una strategia difensiva e annichilente non è questione che si affaccia solo negli studi antropologici, là dove la peculiarità del genere umano è nella dialettica tra filogenesi e ontogenesi, tra transindividuale e individuale. Binswanger in ambito psicanalitico ha interpretato questo disagio dell’umano come possibile eclissi dell’identità, costruita sulla capacità di muoversi non soltanto strumentalmente, in una dimensione ideale dello spazio proprio, al di là della puntualità di una mappa geografica. In Sogno ed esistenza in apertura descrive la condizione di una persona che “in uno stato di abbandono oppure di attesa appassionata” riceve una delusione, per lui «il mondo “cambia” così improvvisamente che, come sradicato, perde qualsiasi punto d’appoggio su di esso»[13]. Paradossalmente il sentirsi sradicati è il contraccolpo del risveglio da una condizione simbiotica ed emotiva con il mondo, che sgretola la pregnanza simbolica al cui interno l’Io fa esperienza sentendo in maniera vigile lo scarto dal mondo, riuscendo a disegnare la continuità temporale tra la propria disposizione, il futuro della propria aspettativa e il presente di una delusione in una rappresentazione unitaria. Cassirer definisce questo processo simbolico come «un’unica corrente di vita e di pensiero che percorre la coscienza, e che in questo mobile fluire realizza per la prima volta la molteplicità e il nesso della coscienza, la sua ricchezza come la sua continuità e costanza»[14].
Nel flusso ininterrotto di immagini, nella predominanza dell’oggettivo sul soggettivo viene a mancare con la differenziazione la capacità di costruire nessi propria della coscienza attraverso la continuità e la costanza di significato. Se «nella vita ordinaria è il si che pensa e che parla», nella «riflessività sono io stesso a pensare e parlare»[15]. Binswanger lo definisce un risveglio dell’Io dal dominio degli input del mondo esterno e dell’impersonale senza qualità. Solo questa luce interiore apre «una immensa possibilità da cui viene emergendo, nella continuità di un concreto esserci, una graduale limitata attualità» come trascendimento dell’esistenza.
In questo senso orizzonte la perdita di mondo è la perdita del trascendere stesso dell’esistenza, l’azzeramento dell’intervallo tra l’essere nel mondo che è dell’esistenza umana e il sentirsi in esso a partire da un mondo proprio. Come ricorda Bateson l’attivazione di un’entropia negativa decide della qualità della vita come relazione. Là dove la stessa antropogenesi si decide nella capacità di introdurre un intervallo che Binswanger chiamerebbe riflessione e Cassirer pregnanza simbolica, l’azzeramento dello spazio della relazione come apertura al mondo produce il rischio di una ricaduta in una condizione di animalità.
Una catastrofe che consumandosi nell’uomo e per l’uomo non ha né sfondo né orizzonte, in quanto è venuto meno il divenire e allo stesso modo la capacità di percepire l’evento e la possibilità di reagire giocando tra spinta alla stabilizzazione e innovazione. Questo determina il senso di sradicamento avvertibile solo da chi riconosce il significato di radici nell’aprirsi a un mondo articolato e molteplice. Radici e significato che si danno sempre in una dimensione transindividuale, all’interno come all’esterno, nel corpo e nella mente, nella memoria e nella vita attiva a disegnare l’orizzonte del tempo umano. De Martino si sofferma su questo mondo condiviso con altri nel tempo «che abbraccia la storia del mio esserci e quella di tutti gli altri esseri umani, e che retrocede verso un infinito passato e avanza verso un infinito futuro. Questo è il mondo che dorme in me, cui sono legato mediante il mio corpo e il mio inconscio: un dormire tuttavia che è un potenziale risvegliarsi»[16].
In questo spazio continuo, ma non omogeneo, la spinta alla stabilità non diventa un vuoto retrocedere, piuttosto riserva per un risveglio che rompe i confini rigidi di un universo macchinico. Questo fondo di senso argina «una carica di semanticità indefinita e indefinibile, in un possibile che non trova reale, in una forza che travaglia ogni ente e che nel vuoto “oltre” riflette il vuoto della energia oltrepassante»[17], riaprendo l’orizzonte di «un mondo culturalmente esperibile, in cui tradizione e iniziativa, memorie e scelte si compongono in una vita dialettica»[18].
Prima ancora di prevedere, vivere tragicamente o patire le catastrofi, perché dopo le catastrofi ci sia ancora una possibilità di ricostruzione, perché ci sia ancora chi le vive, le sente e ne interpreta i significati per il destino della vita umana si pone una domanda ancora più radicale sulle capacità dell’uomo come organismo intelligente e previdente di riflettere sul proprio futuro. Per arrestare la scena dell’implosione sarà necessario prendersi cura della forma difettiva della vita umana, prima ancora che della sopravvivenza, conservando attenzione per la dialettica sempre aperta tra bisogno e desiderio, nell’intreccio tra stabilità e trasformazione in un tempo finito nella sua estensione e definibile nel suo significato, in cui guardare l’orologio è percepire il senso di un tempo che scorre e che toglie qualcosa e crea qualcosa.
Perché la scena del mondo non sia la Cosmpolis di Don DeLillo.
Il protagonista uomo potente e dinanzi al disastro di operazioni di borsa fin troppo rischiose, finito dopo una giornata paradossale difronte al suo nemico e assassino, «guardò l’orologio. Diede un’occhiata all’orologio, per caso. Era lì, al suo polso […].
Ma l’orologio non segnava l’ora. C’era un’immagine, un volto sul cristallo, ed era il suo. […] Ruotò il braccio e il volto scomparve…». L’unica cosa reale rimane il dolore di una mano sanguinante, che lo induce a chiedersi se abbia «qualche desiderio che non fosse postumo». «Fissò lo sguardo nello spazio. Capì cosa mancava, l’istinto rapace, il senso di grande eccitazione che lo spingeva a vivere un giorno dopo l’altro, il semplice e vorticoso bisogno di esistere». Ma era troppo tardi o troppo presto, «lui è morto dentro il cristallo dell’orologio ma è ancora vivo nello spazio originario, in attesa che risuoni lo sparo»[19].
L’orologio, specchio e occhio di controllo, quella macchina sofisticata rimanda l’ultimo riflesso di una Cosmopolis che raccoglie e accoglie ogni cosa per restituirla nel confluire confuso di immaginazione e realtà, di futuro e presente, di un troppo che tanto nel ritardo che nell’anticipo, a un soggetto che non sa se abbia ancora qualche “desiderio postumo”. In questo postumo di un naufrago senza riflesso, autistico e solo, si delinea l’immagine futura di una catastrofe dell’umano.
[1] Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, Paradigma di una metafora dell’esistenza, tr. it. il Mulino, Bologna 1985.
[2] I. Kant, Scritti sui terremoti, tr. it. Edizioni 10/17, Salerno 1984, p. 21.
[3] Ibid. p. 64.
[4] Ibid. p. 55.
[5] G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, sezione Filosofia della natura, tr. it. UTET, Torino 2002, §376 Z.
[6] Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e Discorsi, tr. it. Mursia 1991.
[7] Cfr. T.H. Huxley, Evoluzione ed etica e altri saggi sul governo, i diritti, il socialismo, il liberismo, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[8] G. Anders, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 277.
[9] Ibid. p. 95.
[10] Ibid. p. 43.
[11] Ibid. p. 146.
[12] G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, tr. it. Adelphi, Milano 1984, p. 300 (Glossario).
[13] L. Binswanger, Sogno ed esistenza con un’Introduzione di Michel Foucault, tr. it. SE, Milano 1993, p. 89.
[14] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Fenomenologia della conoscenza, 3.1, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 271.
[15] L. Binswanger, Sulla fuga delle idee, tr. it. Einaudi, Torino 2003, p. 149.
[16] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002, p. 645.
[17] Ibid, p. 632.
[18] Ibid.
[19] Don DeLillo, Cosmopolis, tr. it. Einaudi, Torino 2003.