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Johannes Keplero: armonia e rivoluzione scientifica

Autore


Luca Picco

Università di Firenze

animatore scientifico, svolge attività di ricerca tra le Università di Firenze e Udine

Indice


  1. Introduzione
  2. La formazione scientifica
  3. Il Mysterium cosmographicum, Praga e Tycho Brahe
  4. L’Astronomia nova e la Dioptricae: le “semplici” leggi dell’universo e l’ottica
  5. L’Harmonice mundi: scienza, armonia e musica

 

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S&F_n. 07_2012


  1. Introduzione

Il 1543 è una data fondamentale per la storia tanto che, più della scoperta dell’America, forse contraddistingue il vero passaggio dal Medioevo alla modernità. Quell’anno fu stampato il De revolutionibus orbium caelestium, dell’astronomo polacco Niccolò Copernico, opera che sembra segnare l’inizio di una diversa concezione del mondo e che ha avuto l’ardimento di confrontarsi con una triplice autorità: scientifica, filosofica e teologica[1]. La fine di un mondo creato ad hoc per l’essere umano, procedette parallela alla lenta e faticosa costruzione di un nuovo universo, basato sull’esattezza delle leggi matematiche. Copernico può essere considerato un precursore di Keplero e Galilei e la sua grandezza sta nel fatto che solo attraverso calcoli e meditazioni riuscì a dare un volto nuovo al cosmo. Il dato empirico, tuttavia, risulta essere ancora molto frammentario, infatti, come sostiene Koyré: «il suo sistema non va d’accordo con i fenomeni più di quello di Tolomeo, che egli pretese di sostituire»[2].

La nuova centralità del sole nell’universo tuttavia non fu scevra da strascichi medioevali e aristotelici. Per Copernico il punto di partenza restò sempre e comunque la circolarità delle orbite dei pianeti, che egli continuava a pensare come orbi solidi e non ancora geometrici. Il sole, inoltre, è sicuramente al centro dell’universo ma non è affatto il centro del movimento. Esso ha una funzione ottica e geometrica, idea che risente dei contemporanei influssi neoplatonici e che spinge verso una sorta di “eliolatria”. L’universo, quindi, continua a essere finito, sferico e racchiuso dal cielo delle stelle fisse.

Il primo passo però era stato fatto e anche se, come scrisse il teologo luterano Osiander nell’introduzione al De revolutionibus, agli occhi dei contemporanei quei calcoli non potevano essere altro che mere ipotesi, si faceva strada l’idea che mathemata mathematicis scribuntur. Questa citazione, apparsa nella lettera di dedica di Copernico al Papa Paolo III, indica una prima importantissima “divisione dei ruoli” per cui solo i matematici potevano occuparsi di astronomia, allontanando così l’ingerenza della teologia da questioni scientifiche.

Il passaggio da una vecchia metafisica e astronomia a una nuova però non fu né netto né lineare. Copernico per primo minò la gerarchia stabilita opponendo l’uguaglianza qualitativa fra regno celeste e regno sublunare che fino a quel momento erano concepiti come irrevocabilmente contrapposti. Ma per giungere a una concezione dell’universo come infinito bisogna passare attraverso le figure di Thomas Digges, Giordano Bruno e William Gilbert[3].

Lo stesso Keplero rifiuta l’idea dell’infinità del cosmo per ragioni sia di natura scientifica che di natura metafisica. L’infinito non ha basi empiriche su cui poggiarsi; inoltre, dato che il cosmo è espressione della trinità divina e incorpora nella propria struttura i concetti di ordine, armonia e matematica, per cui «il sole, le stelle fisse e lo spazio intermedio corrispondevano a Dio Padre, al Figlio e allo Spirito Santo»[4], l’infinito non può essere specchio di tale perfezione.

Il pensiero scientifico, dunque, comprendeva aspetti molto variegati del sapere e questi continui rimandi a discipline che oggi ci appaiono a-scientifiche non deve farci sorridere. Il connubio musica-astronomia, per esempio, ha basi storiche solide in quanto entrambe le materie erano inserite nel Quadrivio formativo dello studente universitario medioevale. La musica era espressione dell’armonia nel tempo (successione) e l’astronomia si occupava dell’armonia nello spazio (simultaneità)[5].

 

  1. La formazione scientifica

Johannes Keplero nacque il 27 dicembre 1571 a Weil der Statd, vicino Stoccarda. L’autorevolezza di entrambi i nonni, che ricoprivano le cariche di sindaco della stessa cittadina e della vicina Eltingen, non garantirono al piccolo Johannes la tranquillità necessaria per crescere serenamente. Il padre, mercenario, spariva per lunghi periodi di tempo da casa, mentre la madre fu vittima, in vecchiaia, di un lungo e spossante processo per stregoneria. Il giovane, però, poté godere della libertà di educazione che il duca del Württemberg aveva concesso al proprio Stato, dopo la pace di Augusta. Il sistema luterano prevedeva un primo ciclo scolastico, gratuito e obbligatorio, che permetteva di leggere e comprendere la Bibbia tradotta in lingua volgare. Johannes si mise subito in mostra e questo gli permise di accedere prima al triennio successivo e poi al Seminario inferiore di Adelberg. Nel 1588 superò l’esame di baccalaureato venendo così accettato allo Stift, il seminario di Tubinga, dove frequentò il biennio di arti e il triennio in teologia. Fu durante questi anni che incontrò una persona fondamentale per il proseguimento dei suoi studi: Michael Maestlin, insegnante di astronomia, uno dei pochi studiosi in grado di comprendere seriamente il De revolutionibus di Copernico. Sotto la sua guida lo spirito critico del giovane Johannes si affinò e cominciò anche a delinearsi un primo approccio personale al sapere, sia scientifico che spirituale. L’apertura di vedute del maestro lo portarono a considerare la ricerca di Dio non solo attraverso l’analisi della Sua parola, ma anche tramite lo studio della Sua opera: la Natura[6]. «Dio sarebbe emerso dalle regolarità e dalle analogie che si andavano leggendo nei fenomeni, da un ordine, scritto nella Natura, a cui veniva assegnato il nome di Armonia»[7].

C’erano, inoltre, esigenze più pratiche che portavano gli studiosi della fine del XVI secolo a occuparsi di astronomia: la necessità di un aggiustamento del calendario giuliano e, in seguito alle nuove scoperte geografiche, il perfezionamento della topografia geografica. Tutto questo doveva essere rivisto in seguito alla pubblicazione, avvenuta nel 1543, dell’opera di Copernico e quindi ristudiato in un ottica differente. Attraverso i calcoli del’astronomo polacco era ora possibile rielaborare una nuova descrizione fisica del nostro sistema solare che si allontanava dal modello aristotelico-tolemaico.

Gli studi teologici di Keplero subirono una battuta d’arresto nell’ultimo decennio del ‘500, quando fu chiamato dal seminario di Graz a ricoprire la carica di professore di matematica, lavoro difficile a causa della tensione che in Austria c’era fra cattolici e protestanti. Fra gli incarichi del “Mathematicus della provincia” c’era anche quello di stillare i calendari annuali con i relativi oroscopi. Il 1595 gli portò fortuna poiché predisse due eventi (ondata di freddo e invasione dei Turchi) che lo ripagarono dall’accoglienza poco calorosa.

Pur dubitando dell’efficacia degli oroscopi, Keplero era convinto che «come l’orecchio coglie l’armonia dei suoni e l’occhio l’armonia di forme e colori, così l’anima potesse cogliere un’Armonia del cosmo rappresentata dalle posizioni relative e dai moti dei pianeti»[8].

Allo studio della “musica astronomica” e dell’armonia del creato, Keplero dedicò gran parte dei suoi studi.

 

  1. Il Mysterium cosmographicum, Praga e Tycho Brahe

Fu durante la sua permanenza nella città austriaca che Keplero scrisse il Mysterium cosmographicum, gettando le basi programmatiche della sua ricerca scientifica, a cui si intrecciavano forti elementi metafisici e mistici. Il punto fermo da cui muovere i primi passi doveva essere il sistema copernicano, ma la volontà di Keplero era quella di passare da un’astronomia di “osservazione” a un modello che fosse in grado, a priori, di indagare le cause celesti. Secondo lui solo nel De revolutionibus la momentanea inversione di marcia di un pianeta (moto retrogrado) era spiegata correttamente; inoltre, uno dei pregi dell’opera dell’astronomo polacco era quello di spiegare la Natura in base alle due caratteristiche principali di semplicità e unità.

L’idea era quella di cercare Dio nel Creato, nella Sua Opera e per questo la domanda fondamentale non doveva essere solo sul “come” ma anche sul “perché”. Nel Mysterium, che come tutte le opere di Keplero si presenta come un completo resoconto delle sue ricerche, sono abbozzate proprio queste questioni: perché i pianeti sono proprio in quel dato numero? Perché sono disposti precisamente a quella distanza dal sole e perché possiedono quella determinata velocità?

Il linguaggio ideale secondo Keplero doveva essere quello geometrico. Il riferimento particolare alla sfera non doveva essere casuale, dato che a essa era attribuito il significato della Trinità e dell’essere umano uniti insieme. Le distanze dei pianeti dal sole dovevano essere riproposte attraverso poliedri regolari inscritti in una sfera, come una struttura a incastro dove i poliedri, i 5 solidi platonici (Ottaedro, Icosaedro, Dodecaedro, Tetraedro, Cubo), contenevano le sfere che i relativi pianeti tracciavano.

Tuttavia l’apparente validità di questo modello non esauriva tutte le questioni: rimaneva quella della velocità che variava non solo da pianeta a pianeta, ma anche all’interno di ciascuna orbita. Keplero allora individuò un’unica “anima motrice”, situata nel sole, che faceva di quest’astro il fulcro di una virtus in grado di muovere i pianeti con un’adeguata distribuzione nello spazio e in perfetto ordine crescente con l’avvicinarsi all’astro. Più tardi questo statico sistema si trasformerà in un modello in moto nel tempo grazie alla musica.

Grazie a quest’opera Keplero partecipò al dibattito astronomico di fine Cinquecento che gli permise di entrare prima in contatto con Galileo Galilei e poi con Tycho Brahe, matematico imperiale alla corte praghese di Rodolfo II. L’intolleranza religiosa che si faceva sempre più incombente a Graz portò Keplero a trasferirsi a Praga, prima come assistente dell’astronomo danese e poi come suo successore alla carica di matematico imperiale. Qui Johannes, ormai quasi trentenne, ebbe accesso al più prezioso e accurato giacimento di dati astronomici del tempo che Brahe e i suoi collaboratori avevano racimolato in quasi venticinque anni di osservazioni.

L’importanza di Brahe nella storia dell’astronomia è da tempo riconosciuta. L’esplosione di una supernova che dal 1572 era visibile nei cieli, lo portò a una riconsiderazione del sistema solare, in quanto tale fenomeno contraddiceva con l’incorruttibilità che secondo Aristotele caratterizzava la sfera delle stelle fisse. Solo quattro anni dopo il re Federico II di Danimarca gli donò l’intera isola di Hven, dove Brahe edificò la cittadella astronomica di Uraniborg da cui cominciò la sua pedissequa e monumentale raccolta di dati astronomici.

A parte l’indubbio contributo materiale che Brahe offrì al suo successore Johannes, resta il fatto che le loro posizioni rimasero ben distinte per quanto riguarda la scelta del sistema cosmologico. L’idea dell’astronomo danese verteva sempre sulla fissità della terra, attorno alla quale ruotava il sole. I pianeti, invece, compivano le loro orbite circolari attorno all’astro solare.

 

  1. L’Astronomia nova e la Dioptricae: le “semplici” leggi dell’universo e l’ottica

I contributi fondamentali di Keplero alla storia della scienza furono senza dubbio le tre leggi che ancora oggi vengono studiate. Di queste, le prime due compaiono nei 70 capitoli che formano l’Astronomia nova, opera scritta e pubblicata durante il primo decennio del 1600, e furono elaborate in seguito allo studio e alle osservazioni che l’astronomo compì su Marte. Nello specifico, due sono le questioni fondamentali che riguardano il moto del pianeta rosso: il suo caratteristico e irregolare moto retrogrado e la marcata eccentricità che fa in modo che l’orbita di Marte sia quella più difficile da inserire in una struttura a orbite circolari.

Keplero quindi ricalcolò tutte le distanze planetarie e giunse alla conclusione che le orbite non sono simmetriche. Il sole, inoltre, possiede due forze: la prima, quella centrale (espressa nel Mysterium), inversamente proporzionale alla distanza e la seconda, quella magnetica, introdotta in seguito alla pubblicazione del De magnete di Gilbert pubblicato nel 1600. L’astro solare ruotando su stesso si “porta dietro” i pianeti[9] e provoca un’emanazione magnetica per cui i pianeti, visti come magneti, vengono attratti e contemporaneamente respinti, per cui il loro moto deriva dalla sommatoria delle due forze.

Ma dato che, secondo Keplero, la fisica e l’astronomia devono essere complementari, per capire l’origine e il significato delle prime due leggi bisogna approfondire i suoi discorsi sull’ottica. Non solo elabora una teoria dell’immagine retinica, ma introduce il concetto di “fuoco” che avrà conseguenze fondamentali per l’ottica geometrica, la misurazione delle coniche, la teoria della visione e il moto dei pianeti.

Keplero, inoltre, affronta la questione della natura della luce e soprattutto dei due punti più problematici dell’ottica cinquecentesca: la convinzione che la percezione delle immagini avvenga nel cristallino e la convinzione che dall’oggetto parta un unico raggio diretto verso l’occhio. La teoria di Keplero dell’immagine retinica pose le basi della moderna fisiologia ottica, ribaltando le convinzioni precedenti, e aprendo le porte al concetto fondamentale della «convergenza dei raggi in un punto particolare, da lui chiamato fuoco, dov’era possibile osservare nitidamente l’immagine di una sorgente situata in un altro fuoco»[10].

Nella Dioptrice (1610-11), Keplero affronta i problemi legati alle lenti e ai sistemi di lenti, attraverso 141 teoremi distinti in quattro diverse categorie: definizioni, assiomi, problemi e proposizioni. Propone prima di tutto un nuovo assetto di lenti (entrambe convesse, anziché una concava e una convessa). Fornisce inoltre una spiegazione delle conseguenza delle scoperte galileiane delle fasi di Venere e delle imperfezioni della Luna, che fecero definitivamente collassare l’assunto sulla fissità della terra nel cosmo e, più in generale, il sistema tolemaico-aristotelico.

 

 

  1. L’Harmonice mundi: scienza, armonia e musica

Durante il processo per stregoneria che vide coinvolta sua madre Caterina, le energie di Keplero furono totalmente impiegate nella strenua difesa della donna contro l’Inquisizione. Tuttavia, fu in questo periodo che ebbe occasione di leggere approfonditamente il Dialogo sulla musica antica e moderna di Vincenzo Galilei, padre di Galileo, considerato uno scritto fondamentale per la teoria musicale contemporanea. Il Dialogo fu di supporto per l’opera che Keplero stava scrivendo in quei anni: l’Harmonices mundi. L’intensa attività di ricerca di un modello fisico e matematico dell’universo, procedeva parallelo a uno studio approfondito delle basi teoriche musicali.

Il termine “armonia” era un concetto chiave per l’astronomo tedesco e nella cultura del XVII secolo rimandava a diversi significati. Era, infatti, l’oggetto di studio della “scienza degli armonici”, disciplina che al suo interno approfondiva questioni legate alla matematica, all’ingegneria, alla fisica, alla fisiologia acustica, fino alla teoria e composizione musicale e cosmologia[11].

Era inserita tra le quattro scienze del Quadrivio (assieme all’aritmetica, geometria e astronomia) e possedeva una propria connotazione storica e culturale.

La “scienza degli armonici” si può far risalire fino alla figura di Pitagora di Samo (VI secolo a.C.) per il quale coincideva con lo studio delle diverse proporzioni, quelle aritmetiche, geometriche e armoniche, appunto. Tali proporzioni venivano in un secondo momento ascoltate attraverso il monocordo, vicino al quale una scala graduata poteva indicare facilmente se il rapporto numerico che si trovava era gradevole all’orecchio. «La teoria musicale diventava in tal modo il punto di incontro tra il mondo astratto del numero e la realtà fisica»[12].

Attraverso i contributi di Platone (Timeo) e di Aristotele (De caelo e Metaphysica) queste ricorrenze matematico-musicali venivano generalizzate all’intero universo, nel tentativo di descrivere un Cosmo coerente.

Fino al XVII secolo la divisione terminologica ed epistemologica era quella introdotta da Boezio e prevedeva una tripartizione in musica mundana, musica humana e musica instrumentalis, che si occupavano rispettivamente del sistema solare, delle leggi armoniche sul nostro pianeta e delle tecniche di costruzione. Successivamente, la continua specializzazione portò alla nascita della scienza acustica moderna e alla definitiva rottura dei rapporti fra musica e metafisica.

Esiste un curioso legame che lega la musica alla rivoluzione scientifica, soprattutto se si prende in considerazione l’importanza che via via si sta diffondendo della verifica sperimentale delle teorie elaborate. La musica infatti possiede il carattere della ripetibilità, che da un lato consente un continuo controllo empirico e dall’altro necessita di un rigoroso linguaggio, univoco e universalmente accettato[13]. Anche la creazione delle Accademie musicali, come quella fiorentina dei Bardi o quella parigina di Baif, può essere interpretata come un’anticipazione di quelle scientifiche.

Fin dai tempi di Pitagora erano stati due gli scogli da superare: il “problema della consonanza” e la “divisione dell’ottava”. Bisognava per un verso stabilire quali tipi di intervalli siano considerati consonanti, e per l’altro scegliere fra tutte le infinite frequenze possibili l’ottava più adatta e la nota fondamentale da cui partire.

A soluzioni di tipo aritmetico, proposte da Pitagora o da Padre Martini per esempio, Keplero contrapponeva un’alternativa di tipo metafisico, basata però sul linguaggio della geometria.

L’opera in cui la musica interagisce maggiormente con la fisica e l’astronomia è l’Harmonice mundi, nella quale Keplero tenta di descrivere il proprio modello armonico del creato, inserendo strumenti della teoria musicale in campo astronomico che rendano immediatamente plausibili le sue teorie sull’eccentricità delle orbite. Infatti: «Nel terzo libro dell’opera rappresenta su un pentagramma le note corrispondenti alle velocità minime e massime dei pianeti, tenendo conto del fatto che, ovviamente, nel corso dell’orbita, un pianeta assumerà anche le velocità intermedie»[14].

Da questo tentativo si svilupperà la sua famosa Terza Legge, per la quale il rapporto fra il cubo del semiasse maggiore dell’orbita di un pianeta e il quadrato della sua distanza dal Sole rimane costante. Tale esponente frazionario che caratterizza il semiasse e i periodi di rivoluzione, agli occhi (e alle orecchie) di Keplero rimandava immediatamente al rapporto che permetteva di costruire la scala musicale pitagorica. Questa legge, insomma, era l’anello di congiunzione fra l’Armonia del creato e la Musica del Cielo. E se fino ad allora la perfezione e la simmetria dell’impronta di Dio la si poteva scorgere esclusivamente nel moto circolare uniforme, ora tale caratteristica sarebbe sorta anche senza ricorrere a forzati epicicli per adeguare le osservazioni compiute ai modelli pensati.

Nei cinque libri (e l’Appendice) che compongono l’Harmonice, Keplero si confronta prima di tutto con i classici, Claudio Tolomeo, e poi con i contemporanei, Robert Fludd. Nessuno dei due basa la sua concezione sul sistema copernicano, erano quindi entrambi da considerarsi superati, sebbene Fludd immaginava un sistema solare come un gigantesco monocordo, accordato da una mano divina, sul quale le distanze fra i pianeti erano proporzionali alla lunghezze stabilite per produrre le relative note.

Per Keplero il linguaggio da utilizzare è quello geometrico, perché classificando il suono come fenomeno continuo, è adatto a studiare fenomeni di questo tipo, mentre l’aritmetica si limita alle descrizioni di quantità discrete. Nei libri successivi l’astronomo fornisce prima una definizione di armonia, intesa non solo come sistema musicale ma anche, e soprattutto, come ordine, e poi approfondisce i punti principali legati al concetto di consonanza e la conseguente selezione di alcuni rapporti privilegiati (il 3/2 su tutti).

La ricerca fondamentale verteva nel trovare un rapporto adeguato, non più fra le distanze come si era studiato fino a questo punto, ma fra le velocità angolari delle orbite calcolate rispetto al Sole nei due punti di afelio e perielio. Ciascun pianeta è quindi caratterizzato da un particolare intervallo musicale, corrispondente al rapporto tra la sua velocità minima e massima. Di due pianeti corrispondenti inoltre si possono trovare relazioni fra le relative velocità in modo da ottenere due intervalli per ciascun abbinamento. Sugli intervalli generati dai pianeti, inoltre, è possibile costruire delle scale prendendo come nota fondamentale la frequenza di sol basso (attribuita alla velocità di Saturno).

 


[1] N. Copernico, De revolutionibus orbium caelestium, a cura di A. Koyré, tr. it. Einaudi, Torino 1975.

[2] A. Koyré, Introduzione a De revolutionibus orbium caelestium, cit.

[3] Id., Dal mondo chiuso all’universo infinito, tr. it. Feltrinelli, Milano 1981.

[4] J.L.E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero, tr. it. Feltrinelli, Milano 1970, p. 343.

[5] G. Stabile, Musica e cosmologia: l’armonia delle sfere, in M. Letterio, La musica nel pensiero medievale. Atti del IX Congresso della Società Italiana per lo studio del Pensiero Medievale, Longo Editore, Ravenna 1999.

[6] A.M. Lombardi, Keplero: semplici leggi per l’armonia dell’universo, Le Scienze, Milano 2000.

[7] Ibid., p. 9.

[8] Ibid., p. 13.

[9] Cfr. ibid.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p. 69.

[13] Ibid.

[14] Ibid., p. 78.

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